
Ogni cittadino americano ricorda alla perfezione dove si trovava
e che cosa stava facendo l'11 settembre del 2001, quando due aerei
si sono abbattuti sulle Torri Gemelle a New York. Ogni cittadino
italiano della mia generazione sa perfettamente dove si trovava il
9 luglio del 2006, quando la nazionale di Marcello Lippi conquistò,
al termine di un'estenuante partita (conclusasi con i calci di
rigore), il titolo iridato in Germania, battendo in finale gli
"odiati" cugini della Francia. Ci sono momenti, attimi di storia,
che resteranno per sempre nei "cassetti" delle persone e che quando
vengono ritirati fuori fanno commuovere, ridere, piangere o mancare
il respiro. C'è una data che rimarrà impressa nel cuore dei tifosi
della Lazio: il 18 gennaio 1977. Quella giornata di 35 anni e un
paio di mesi fa, sarebbe dovuta essere per Luciano Re Cecconi,
maglia numero 8, professione centrocampista e capelli di un biondo
angelico, come tutte le altre.
Anzi felice poiché Cecco, come veniva soprannominato dai suoi
compagni di squadra, era finalmente pronto per rientrare in campo
dopo un brutto infortunio rimediato il 24 ottobre in campionato
contro il Bologna. Quel martedì Luciano giocò per intero la
partitella d'allenamento e poi uscì dal centro sportivo di Tor di
Quinto con il compagno Pietro Ghedin. I due andarono a prendere
Giorgio Fraticcioli, proprietario di una profumeria, che li invitò
ad accompagnarlo da un cliente a cui doveva consegnare dei flaconi
in una gioielleria di via Nitti, nel quartiere Fleming. I tre
entrarono poco prima dell'orario di chiusura, intorno alle 19,30.
Luciano, abituato a fare scherzi, ne avrebbe suggerito uno a
Fraticcioli e Ghedin. Uno scherzo che, in una Roma sconvolta da
rapimenti, rapine e sparatorie purtroppo gli sarebbe stata
fatale.
Fraticcioli e Ghedin sarebbero entrati per primi. Re Cecconi, alle
loro spalle con il bavero del cappotto alzato, avrebbe esclamato:
«Fermi tutti questa è una rapina!». Il gioielliere, Bruno
Tabocchini già vittima in quel periodo di un paio di rapine, agì di
riflesso e, scambiando Re Cecconi per un vero rapinatore, quasi
senza guardare estrasse la pistola che teneva sotto il bancone del
negozio. E sparò: l'angelo biondo morì sul colpo. Per anni, sulla
tragedia di cui è stato vittima il centrocampista della Lazio, è
stata fornita la versione dello "scherzo finito male" e l'opinione
pubblica l'ha fatta propria. Una teoria rafforzata da un processo
che nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere in discussione. Il
coraggio, però, l'ha avuto il giornalista Maurizio Martucci con il
suo libro-inchiesta Non scherzo. Re Cecconi 1977, la verità
calpestata. Martucci si propone di dimostrare che il calciatore
rimase effettivamente vittima di una tragica circostanza, non
pronunciando mai, però, le parole «fermi tutti, questa è una
rapina!» che innescarono nel gioielliere la reazione omicida.
Secondo Martucci, la teoria dello scherzo finito in tragedia è
stata portata avanti fin da subito dalla difesa del commerciante,
che riuscì ad affermarla dinanzi ai giudizi in un processo per
direttissima che si concluse in poco meno di venti giorni. Va detto
che erano anni particolarmente difficili in Italia; soprattutto a
Roma, dove sparatorie e omicidi erano all'ordine del giorno. In
quel clima di tensione, lo stesso Tabocchini aveva subito una
rapina che aveva scatenato una sparatoria.
Per lo scrittore, quindi, in quei giorni il gioielliere era
emotivamente molto provato e quando vide entrare nel suo negozio
due persone che non conosceva, Re Cecconi (che comunque aveva il
volto coperto dal bavero del cappotto) e Ghedin, tirò fuori la
pistola non per sparare, ma per prevenire una "nuova" rapina. «Fu
in quei secondi che per errore - scrive Martucci nel suo libro -
Tabocchini spostò l'arma e sfiorò il grilletto, facendo partire il
colpo che uccise Re Cecconi». Il mito dello scherzo di Cecco,
secondo Martucci è stato creato creato perché l'unico a parlare con
la stampa in quel drammatico giorno di metà gennaio fu il
gioielliere. Ghedin lo fece solamente con il suo compagno di
squadra e inseparabile amico, Gigi Martini. Il quale, stando a
quanto scritto sul libro-inchiesta, riferì che Re Cecconi non disse
nulla e, stando a quanto emerge anche dagli atti, fornì in
tribunale due versioni differenti.
Nella fase preliminare disse che non c'era stato nessuno scherzo,
mentre durante il processo ribaltò la dichiarazione precedente.
L'autore rilancia inoltre l'idea in base alla quale nessuno ebbe il
coraggio di indagare oltre, perché «Re Cecconi venne bollato
politicamente come fascista», in quanto calciatore della Lazio
«squadra con tifoseria marcatamente schierata a destra»; ma «lui
non era di destra, semplicemente si disinteressava della politica».
Infine, per Maurizio Martucci, l'opinione pubblica di allora fu
foraggiata dalla "lobby degli orafi", molto forte politicamente,
che era presa di mira dai cosiddetti gruppetti del sottobosco
eversivo e dagli extraparlamentari di destra e sinistra che
utilizzavano le rapine per l'autofinanziamento. «Gli orafi si
strinsero intorno a Bruno Tabocchini mentre Re Cecconi venne
abbandonato dalla tifoseria laziale e non sostenuto
dall'opinione pubblica».
Passò quindi il teorema dello scherzo e il gioielliere romano fu
assolto nonostante le richieste della pubblica accusa che
smontarono «la teoria dello scherzo finito male». La versione del
"caso Re Cecconi" di Maurizio Martucci, differisce in parecchie e
importanti sfumature rispetto a quella che per 28 anni si è
"calcificata" nell'opinione pubblica e nessuno, ad oggi, ha voluto
accettare una revisione dei fatti che macchiarono quel 18 gennaio
del 1978. In questi casi una rivisitazione sarebbe quanto meno
legittima. Basti pensare alla vicenda del centrocampista del
Cosenza, Donato Bergamini, tornato in evidenza in questi anni con
la riapertura del caso e il ribaltamento delle teorie dell'epoca,
secondo le quali il calciatore cosentino si suicidò gettandosi
sotto un tir sulla strada statale 106 Jonica.
Un altro particolare, infine, cancellato dall'opinione pubblica: nel 1983 la Rai realizzò il film L'appello - Il caso Re Cecconi che venne subito censurato perchè la famiglia di Tabocchini si oppose alla trasmissione, denunciando l'emittente pubblica e lo sceneggiatore. La Rai vinse la causa dopo tredici lunghissimi anni, ma la cosa quantomeno strana è che si decise di non mandare mai in onda quella pellicola che probabilmente avrebbe diradato un po' di nebbia dallo sfortunato omicidio dell'angelo biondo laziale.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:35