La verità sulla morte di Re Cecconi

domenica 29 aprile 2012


Ogni cittadino americano ricorda alla perfezione dove si trovava e che cosa stava facendo l'11 settembre del 2001, quando due aerei si sono abbattuti sulle Torri Gemelle a New York. Ogni cittadino italiano della mia generazione sa perfettamente dove si trovava il 9 luglio del 2006, quando la nazionale di Marcello Lippi conquistò, al termine di un'estenuante partita (conclusasi con i calci di rigore), il titolo iridato in Germania, battendo in finale gli "odiati" cugini della Francia. Ci sono momenti, attimi di storia, che resteranno per sempre nei "cassetti" delle persone e che quando vengono ritirati fuori fanno commuovere, ridere, piangere o mancare il respiro. C'è una data che rimarrà impressa nel cuore dei tifosi della Lazio: il 18 gennaio 1977. Quella giornata di 35 anni e un paio di mesi fa, sarebbe dovuta essere per Luciano Re Cecconi, maglia numero 8, professione centrocampista e capelli di un biondo angelico, come tutte le altre.

Anzi felice poiché Cecco, come veniva soprannominato dai suoi compagni di squadra, era finalmente pronto per rientrare in campo dopo un brutto infortunio rimediato il 24 ottobre in campionato contro il Bologna. Quel martedì Luciano giocò per intero la partitella d'allenamento e poi uscì dal centro sportivo di Tor di Quinto con il compagno Pietro Ghedin. I due andarono a prendere Giorgio Fraticcioli, proprietario di una profumeria, che li invitò ad accompagnarlo da un cliente a cui doveva consegnare dei flaconi in una gioielleria di via Nitti, nel quartiere Fleming. I tre entrarono poco prima dell'orario di chiusura, intorno alle 19,30. Luciano, abituato a fare scherzi, ne avrebbe suggerito uno a Fraticcioli e Ghedin. Uno scherzo che, in una Roma sconvolta da rapimenti, rapine e sparatorie purtroppo gli sarebbe stata fatale.

Fraticcioli e Ghedin sarebbero entrati per primi. Re Cecconi, alle loro spalle con il bavero del cappotto alzato, avrebbe esclamato: «Fermi tutti questa è una rapina!». Il gioielliere, Bruno Tabocchini già vittima in quel periodo di un paio di rapine, agì di riflesso e, scambiando Re Cecconi per un vero rapinatore, quasi senza guardare estrasse la pistola che teneva sotto il bancone del negozio. E sparò: l'angelo biondo morì sul colpo. Per anni, sulla tragedia di cui è stato vittima il centrocampista della Lazio, è stata fornita la versione dello "scherzo finito male" e l'opinione pubblica l'ha fatta propria. Una teoria rafforzata da un processo che nessuno ha mai avuto il coraggio di mettere in discussione. Il coraggio, però, l'ha avuto il giornalista Maurizio Martucci con il suo libro-inchiesta Non scherzo. Re Cecconi 1977, la verità calpestata. Martucci si propone di dimostrare che il calciatore rimase effettivamente vittima di una tragica circostanza, non pronunciando mai, però, le parole «fermi tutti, questa è una rapina!» che innescarono nel gioielliere la reazione omicida.

Secondo Martucci, la teoria dello scherzo finito in tragedia è stata portata avanti fin da subito dalla difesa del commerciante, che riuscì ad affermarla dinanzi ai giudizi in un processo per direttissima che si concluse in poco meno di venti giorni. Va detto che erano anni particolarmente difficili in Italia; soprattutto a Roma, dove sparatorie e omicidi erano all'ordine del giorno. In quel clima di tensione, lo stesso Tabocchini aveva subito una rapina che aveva scatenato una sparatoria.

Per lo scrittore, quindi, in quei giorni il gioielliere era emotivamente molto provato e quando vide entrare nel suo negozio due persone che non conosceva, Re Cecconi (che comunque aveva il volto coperto dal bavero del cappotto) e Ghedin, tirò fuori la pistola non per sparare, ma per prevenire una "nuova" rapina. «Fu in quei secondi che per errore - scrive Martucci nel suo libro - Tabocchini spostò l'arma e sfiorò il grilletto, facendo partire il colpo che uccise Re Cecconi». Il mito dello scherzo di Cecco, secondo Martucci è stato creato creato perché l'unico a parlare con la stampa in quel drammatico giorno di metà gennaio fu il gioielliere. Ghedin lo fece solamente con il suo compagno di squadra e inseparabile amico, Gigi Martini. Il quale, stando a quanto scritto sul libro-inchiesta, riferì che Re Cecconi non disse nulla e, stando a quanto emerge anche dagli atti, fornì in tribunale due versioni differenti.

Nella fase preliminare disse che non c'era stato nessuno scherzo, mentre durante il processo ribaltò la dichiarazione precedente. L'autore rilancia inoltre l'idea in base alla quale nessuno ebbe il coraggio di indagare oltre, perché «Re Cecconi venne bollato politicamente come fascista», in quanto calciatore della Lazio «squadra con tifoseria marcatamente schierata a destra»; ma «lui non era di destra, semplicemente si disinteressava della politica». Infine, per Maurizio Martucci, l'opinione pubblica di allora fu foraggiata dalla "lobby degli orafi", molto forte politicamente, che era presa di mira dai cosiddetti gruppetti del sottobosco eversivo e dagli extraparlamentari di destra e sinistra che utilizzavano le rapine per l'autofinanziamento. «Gli orafi si strinsero intorno a Bruno Tabocchini mentre Re Cecconi venne abbandonato dalla tifoseria laziale  e non sostenuto dall'opinione pubblica».

Passò quindi il teorema dello scherzo e il gioielliere romano fu assolto nonostante le richieste della pubblica accusa che smontarono «la teoria dello scherzo finito male». La versione del "caso Re Cecconi" di Maurizio Martucci, differisce in parecchie e importanti sfumature rispetto a quella che per 28 anni si è "calcificata" nell'opinione pubblica e nessuno, ad oggi, ha voluto accettare una revisione dei fatti che macchiarono quel 18 gennaio del 1978. In questi casi una rivisitazione sarebbe quanto meno legittima. Basti pensare alla vicenda del centrocampista del Cosenza, Donato Bergamini, tornato in evidenza in questi anni con la riapertura del caso e il ribaltamento delle teorie dell'epoca, secondo le quali il calciatore cosentino si suicidò gettandosi sotto un tir sulla strada statale 106 Jonica. 

Un altro particolare, infine, cancellato dall'opinione pubblica: nel 1983 la Rai realizzò il film L'appello - Il caso Re Cecconi che venne subito censurato perchè la famiglia di Tabocchini si oppose alla trasmissione, denunciando l'emittente pubblica e lo sceneggiatore. La Rai vinse la causa dopo tredici lunghissimi anni, ma la cosa quantomeno strana è che si decise di non mandare mai in onda quella pellicola che probabilmente avrebbe diradato un po' di nebbia dallo sfortunato omicidio dell'angelo biondo laziale.


di Luca Sansonetti