Roberto Baggio: non è più domenica

Firenze a ferro e fuoco, il rigore non calciato all’Artemio Franchi contro la Viola, la finale di Coppa Italia persa con il Parma, il gol fantastico alla Cecoslovacchia in una di quelle notti magiche di giugno 1990. Il tempo è volato, l’esame di terza media è alle porte e questa gita a cavallo tra Napoli, Pozzuoli e Reggia di Caserta è interessante ma non quanto Paris Saint Germain-Juventus del 22 aprile 1993, semifinale di Coppa Uefa. In un albergo di chiara matrice partenopea viene messo a disposizione un televisore e una stanza per vedere il match. C’è poca luce e l’isolamento (affettivo e di tifo pallonaro) si avverte. Eccome se si avverte. All’andata George Weah e quel furbetto di David Ginola fanno impazzire i bianconeri, che ribaltano il vantaggio iniziale del liberiano con una doppietta di Roberto Baggio. Il numero dieci si ripete anche al Parco dei Principi, regalando la qualificazione ai bianconeri, che alla fine conquistano il trofeo (contro il Borussia Dortmund doppietta nella finale di andata in Germania. E di lì a poco alza il Pallone d’Oro).

Il numero 10 nato il 18 febbraio 1967 a Caldogno, provincia di Vicenza, in bacheca colleziona pure due Scudetti (con Milan e Juve) e una Coppa Italia (Juventus) senza dimenticare i 205 gol in campionato (settimo nella classifica di tutti i tempi) e 27 reti con la Nazionale (quarto assoluto nella Hall of fame a pari merito con Alessandro Del Piero). Troppo poco per uno della sua statura, troppo poco per il più forte giocatore italiano del Secondo dopoguerra. È vero: davanti agli occhi di molti c’è quel rigore sparato in piccionaia nella finale dei Mondiali Usa del 1994 contro il Brasile. Eppure, la truppa del teorico Arrigo Sacchi, se arriva a giocarsi il titolo nella torrida Pasadena, lo deve alle perle fuori dagli schemi del fantasista. Perché lo spirito, si sa, vince la materia.

Mentre su Netflix il 26 maggio sarà in streaming il film dedicato al fuoriclasse vicentino, Rai Play nella puntata di “Ossi di Seppia. Il rumore della memoria”, dall’ 11 maggio ripercorre vita, sogni e passioni del campione che, nell’intervista pubblicata su Il Venerdì di Repubblica, esce allo scoperto dopo anni di letargo da campi di gioco e telecamere. Nella chiacchierata ricorda il compianto Paolo Rossi (“la sua morte è stata ingiusta, si era rifatto una vita anche lui, meritava di avere più tempo”) e non manca una stilettata a Sacchi: “Non mi portò agli Europei del ’96 per dimostrare che gli schemi sono più importanti dei giocatori. Non è arrivato ai quarti (lo spirito vince la materia, ndr)”.

Senza dimenticare gli infortuni, la voglia di rialzarsi, le magie nella periferia lontana dai riflettori, con Brescia e Bologna. Fino alla scelta, per certi versi, fuori dall’ordinario: “Faccio la cosa più bella, sono a contatto con la natura… lasciare il calcio mi ha ridato vita e ossigeno. Spacco la legna, uso il trattore e la sera sono così stanco che mi gira la testa”.

Un ritorno alle origini, un ritorno al paesello. Come quel paesello che incrocio perché è linfa vitale, per ricaricare le pile e lasciarsi alle spalle la città. Quel paesello che in una notte di quasi 31 anni fa si veste di tricolore mentre Totò Schillaci abbraccia il Divin Codino e dal bar della stazione parte la sirena a manovella. Quel paesello che oggi è più spoglio mentre il calcio è più triste. Forse perché – come dice la canzone – da quando Baggio non gioca più… non è più domenica.

Aggiornato il 03 dicembre 2022 alle ore 08:55