Game, set, match: la storia del Palpa

La verità è che non c’è una verità. In questo girotondo d’anime ci sono storie da raccontare, talvolta da scrivere. “La pena da scontare, per me, è la consapevolezza di aver bruciato gli anni in cui ci si costruisce il futuro”. E poi: “Non ho mai fatto nient’altro nella mia vita, per tirare qualche soldo, se non colpire palline da tennis. Questo è il mio universo, ma è diventata anche la mia prigione, perché ci abito alla mia maniera: senza contratti, senza contributi pagati”.

Roberto Palpacelli, a detta di molti, è stato un grande talento. Un grande talento mancato. Un giudizio unanime: da Diego Nargiso a Paolo Canè con il suo turbo-rovescio (per dirla alla Giampiero Galeazzi) passando per Paolo Bertolucci e Riccardo Piatti, è viva la convinzione che il “Palpa” sarebbe potuto diventare il numero uno. Un serve & volley continuo, tra racconti offuscati e fantasia al potere, come quando a sedici anni per ravvivare una partita prese a colpire la palla con il manico della racchetta: tanti smash fino a perdere l’incontro.

Federico Ferrero ha raccontato Roberto Palpacelli in un libro. Un trip andata e ritorno tra saliscendi, come le montagne russe del luna park. Con un protagonista che oggi non ha internet, non ha un computer, non sa cosa sia una app (“sinceramente neanche mi interessa”) e possiede un telefono che “fa due cose, chiama e risponde. Una volta mi regalarono un cellulare con lo schermo grosso e senza testi, lo guardai un istante poi lo lasciai nella scatola”.

“Di quei traguardi che tutti sostenevano avrei raggiunto senza problemi, non ne ho visto neanche uno” ha detto il protagonista “invece sono stato bravissimo a bruciare me stesso. In tutti sensi”. Una vita a cento all’ora, impennando sul lungomare, “fregandomene di tutto e tutti”. E una consapevolezza, raggiunta l’attesa maturità: “So di non essere un esempio, non voglio esserlo: credo che, per un genitore, poche cose possano dare più dolore di un figlio che scivola nella fogna degli stupefacenti e dell’alcolismo. Penso anche, però, che una persona non possa essere ridotta ai suoi difetti e ai suoi errori”.

Roberto Palpacelli è certo di aver vissuto di rendita sul suo talento, più veloce della luce, come la palla di servizio che tirava da ragazzino: “Ho scelto di fare il ribelle, ne ho pagate le conseguenze”. Perché “chi da giovane sceglie solo di divertirsi perché non capisce il motivo di doversi impegnare in faccende difficili e noiose, si condanna da adulto a non divertirsi mai. È vero”. Una volta, dopo un incidente, trovarono la sua moto contro un ulivo “ma mancava il cadavere”. Poi apparve Roberto, con i capelli lunghi sulle spalle, i vestiti strappati e la fronte grondante sangue. Un tizio lo guardava incredulo. E il tennista gli disse: “Che c’hai da guardarmi così, hai visto Gesù Cristo?”.

Palpacelli, adesso, conosce a memoria le fermate del suo viaggio: Pescara Centrale, Montesilvano, Silvi, Pineto, Roseto, Giulianova, Tortoreto, Alba Adriatica, Porto d’Ascoli. E infine San Benedetto Del Tronto, direzione Dopolavoro, nel circolo accanto alla ferrovia: “Passo lo straccio sul campo, lo bagno, cerco di sgranchirmi un po’. Potrei fare come i maestri svogliati, far palleggiare le persone una contro l’altra e rimanere a guardare: ma non fa parte del mio codice morale”. Appena scende dal treno niente drink o Campari, solo una spremuta e una brioche con la frutta secca. Nello zaino, il thermos con la tisana allo zenzero, stop anche con il caffè e con tutti gli eccitanti. Alla fine della fiera, come pagnotta guadagnata trenta euro all’ora: dieci servono per pagare il campo, venti per spese, Valium e Marlboro (due pacchetti al giorno).

Il resto è da leggere. La morale? Non esistono morali: “Qualcuno dice che a quest’ora potrei godermi la vita, dopo una carriera da professionista, tanti aneddoti e chissà, il ricordo di un match giocato a Wimbledon o di una partita al Foro Italico col pubblico dei bei tempi, quello che si infuocava per le imprese dei giocatori italiani. La verità è che quel mondo non mi è mai appartenuto. Io ero altrove, vicino ma lontanissimo, giocavo lo stesso sport ma ero da un’altra parte, con la testa e con il cuore. Se ho incrociato il passo, una volta o due, con il tennis vero, è stato poco più che un caso. Ecco perché non ho rimpianti”.

Così parlò “Il Palpa”, il più forte di tutti.

(*) Roberto Palpacelli-Federico Ferrero, “Il Palpa. Il più forte di tutti”, Rizzoli

Aggiornato il 04 dicembre 2022 alle ore 09:35