Vapore esplosivo penitenziario

È preoccupante quanto accade, da qualche tempo, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove tra gli operatori penitenziari e tra gli stessi dirigenti-direttori degli istituti, facenti parte di questa organizzazione sindacale rappresentativa della dirigenza, si constata l’approssimativa conoscenza che i “grands commis” dell’amministrazione dell’esecuzione penale hanno del mondo italiano delle carceri. Nelle migliori delle ipotesi, gli interlocutori precitati, quantomeno malinformati (forse perché rifuggono dalla pratica del confronto dialettico con quanti operino per davvero nelle carceri), dall’interno della loro caverna ministeriale ove si ritengono al sicuro, riescono a intravedere solo le ombre di ciò che sembra provenire dal mondo delle carceri, immaginando orde di mostri che potrebbero aggredirli, ma non di orrende creature si tratta, bensì di una massa di umanità dolente prigioniera in galere orribili, di una teoria di persone piegate, spesso umiliate, annichilite. Questa carne umana è costituita prevalentemente da detenuti tossicodipendenti, spesso spacciatori oppure ladri, ci sono poi tanti stranieri che mai riusciranno a rientrare nei loro Paesi, perché sono soggetti che nessuno vuole e lì dove nelle loro nazioni abbiano la ventura di avere dei Governi o pseudo tali, quest’ultimi non ne vogliono la restituzione e non ne riconoscono la cittadinanza, spesso poi sono Paesi senza Stato, oppure dove ce ne sono fin troppi: Stati e realtà territoriali che si formano non poche volte attorno dei gruppi clanici, oppure famiglie o tribù che si fanno ordinamento, dove non esistono servizi pubblici anagrafici, estratti di nascita, uffici passaporti.

È dal 1998, con la Legge Turco-Napolitano, che si cerca di dare una risposta che non perviene al fenomeno dell’immigrazione illegale e, nonostante l’avvicendarsi dei Governi e le loro novità normative, le cose d’allora non sono cambiate, fatta esclusione dell’aumento della durata della detenzione amministrativa nei Cpr, che oggi può arrivare fino a 21 mesi. Lo sanno tutti, lo sanno e vivono le stesse contraddizioni anche gli altri Stati europei e non solo quelli; il fenomeno, infatti, non si è mai arrestato, né in Italia né da loro, tant’è, che seppure con acronimi diversi, i Centri per il rimpatrio li troverete in tutta Europa. Nelle carceri, però, il numero di questi sciagurati stranieri che affinano le loro capacità criminali, per inevitabile contaminazione e promiscuità dei contesti, diventa massa critica e può, in assenza di risposte lungimiranti dello Stato, ribollire improvvisamente.  Ad essi occorre poi aggiungere i diseredati “indigeni”, made in Italy, gente italiana che spesso non ha casa, riferimenti alcuni, famiglie strutturate, aspettative di speranza modeste, di sopravvivenza, attraverso il lavoro anche umile: si tratta di una zavorra sociale troppo pesante per quanti abbiano dello Stato una visione smart, di finto e urlato efficientismo; cosicché detenuti stranieri e italiani, diventano, inevitabilmente, il miglior brodo di coltura delle criminalità organizzate o che tali vogliano diventare: a quanti non hanno nulla, già offrire una potenziale appartenenza ad una cosca appare essere un regalo, una possibilità. Cosa fare, quindi? e come evitare che si arrivi a forme irreversibili di criticità violenta all’interno delle nostre scassate carceri? La risposta, a parere di questa sigla, non può essere nel serrare ancora di più la pentola a pressione penitenziaria, ma in quella che si sforzi di trovare forme di sfogo controllato del vapore carcerario, prima che essa esploda davvero, disordinatamente o addirittura tutto insieme.

Finora i direttori penitenziari, la cui maggior parte è costituta da donne dirigenti, ci sono riusciti in qualche modo, soprattutto aprendo le carceri al territorio, al volontariato sociale, alle ong, rosse, bianche o nere che fossero non importava, perché altro non potevano impiegare come risorse in house. Pensate un po’ la vergogna del sistema che pochi vi raccontano: esso non è nemmeno in grado di assicurare con le proprie risorse un “primo” ricambio di indumenti intimi “di stato” ai prigionieri, se non ricorrendo alla generosità della Caritas, della Sant’Egidio, della San Vincenzo o di quel volontariato parrocchiale che si avvicini per porgere un aiuto alle nostre carceri, ventilatori compresi nell’immancabile ciclica estate fino a quando esisteranno le stagioni (ora forse sorgerà il problema del freddo invernale e dell’acqua calda che manca in diversi istituti penitenziari, pure quelli di “montagna”). Sembra paradossale, ma le carceri da anni vivono sulle risorse “altrui”; esse infatti usufruiscono di quanto perviene da fondazioni bancarie, da fondazioni religiose, dagli enti locali, in primo luogo le regioni, dal mondo del volontariato diffuso che porta nei luoghi della pena il teatro, il cinema, lo sport, la cultura; ma questo avviene pure perché proprio i direttori si fanno ponte con la società esterna, insieme ai loro operatori tutti.

Ebbene, ora pare che così non vada più bene, che nulla più si possa fare se non attraverso il passaggio obbligato con il centro di sorveglianza amministrativa romana, che nulla più possa essere delegato al mondo del privato sociale, non essendo bastevole il controllo ed il monitoraggio delle direzioni penitenziarie sotto la vigilanza della magistratura di sorveglianza: tutto, infatti, dovrà da oggi in poi essere realizzato direttamente dalla mano pubblica (in verità un orrendo moncherino) e tutto deve essere autorizzato dal Dap, dalla direzione generale dei detenuti; si ritorna perciò ad una burocrazia ottocentesca, dell’adempimento formale, rispetto a quella del risultato concreto, oppure ad una visione della migliore scuola statalista dei Paesi che una volta si sarebbero detti di “oltre Cortina”. L’intenzione sarebbe quella di fare maggiore sicurezza: viene da ridere, è come se si dicesse che si fa maggiore sicurezza accendendo una fiamma in un deposito di benzina. Addirittura si proclama solennemente che i detenuti dei circuiti del 41 bis e dell’alta sicurezza debbano essere gestiti direttamente dal ministero il quale non si limiterebbe più a fornire istruzioni di massima alle direzioni ma agirebbe di proprio, sì, come quando qualche anno fa a Roma decisero che per rendere più sicura la gestione dei 41 bis (Totò Riina, Leolouca Bagarella, i fratelli Graviano) si dovesse regolamentare l’acquisto del numero dei peperoni e delle melenzane contingentandone il numero, forse perché “esplodenti di sapore” così come furono decise misure strampalate che irridevano alla intelligenza comune e criminale; oggi, perfino acquistare un chilo di farina potrebbe essere pericoloso per la capacità esplodente dei farinacei, quasi come se ne acquistassero a pallet e stivassero le polveri nei loro depositi dentro le celle senza che gli agenti, addirittura quelli specializzati del Gom (Gruppo operativo mobile) se ne accorgano nei loro continui controlli e perquisizioni locali.

A proposito, perché si comprendano i termini del problema, occorrerebbe ricordare che su 62.723, alla data del 29 maggio 2025, i detenuti del circuito del 41 bis erano 733, mentre quelli dell’Alta sicurezza 9.425; praticamente tutto il resto, circa 50mila persone, era (è) costituito da humus penitenziario, da fango criminale, da disagio delinquenziale, da psichiatria abbandonata dalle aziende sanitarie e per questo indirizzata verso le carceri, dove invece, i folli violenti non dovrebbero stare, ma a chi in fondo interessa !? Ebbene, ma davvero si ritiene che comprimendo questa teoria di persone, che preme già essa stessa sulle mura stanche e malmesse di tante carceri italiane, umiliando tra l’altro il lavoro di promozione dei direttori penitenziari sui territori, si faccia sicurezza, si faccia buona sicurezza? I direttori della mia sigla non vogliono che si eserciti una pericolosa pressione su del materiale umano già esplosivo di per sé, ma chiedono ormai da anni risorse umane effettive; essi esigono condizioni di vita per gli stessi operatori penitenziari dignitose, vorrebbero delle carceri che siano per davvero a norma, invocando le stesse prescrizioni che si chiederebbero ad una scuola, ad un albergo, per un refettorio scolastico, per un modesto ostello della gioventù, per un’autorimessa, per un teatro parrocchiale, un pronto soccorso, una palestra. Spiace che queste cose banali non siano ancora comprese al Dap, spiace che esse non siano puntualmente rappresentate dai massimi livelli amministrativi, spesso formati esclusivamente da magistrati che da sempre gestiscono quella importante articolazione ministeriale, al ministro e ai sottosegretari, inducendo questi ultimi a probabili errori di valutazione che si aggiungeranno a quelli di quanti, sotto altre bandiere e con altri Governi, li hanno preceduti.

La nostra speranza è che per davvero ci si svegli, che finalmente a Roma si prenda coscienza che la verità delle cose è tutt’altra, prima che non solo l’antico carcere di Regina Coeli collassi completamente, ma con esso pure tutto il sistema penitenziario ove continui a poggiarsi sulle bugie di Stato. Confidiamo, pertanto, che il ministro Carlo Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, si spiazzino da quanti, quantomeno inconsapevoli, li stiano indirizzando verso il baratro; ci spiacerebbe, infatti, dover affermare che: “Ve lo avevamo detto”, perché è nostra volontà quella di costruire e rassicurare, non certamente quella di fare la conta delle rovine.

(*) Coordinatore nazionale della Dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae

Aggiornato il 28 ottobre 2025 alle ore 10:42