L’iceberg penitenziario italiano

Le violenze e i maltrattamenti che sarebbero avvenuti presso l’istituto penale per minorenni “Cesare Beccaria” di Milano non rappresentano il modo d’essere del personale penitenziario e, se per davvero accaduti, non vi sarebbe alcuna solidarietà. Al riguardo, non giustifica che si vesta l’uniforme del corpo della Polizia penitenziaria, oppure quella, ancora militare, del corpo degli Agenti di custodia. Né condiziona che si indossino gli abiti “civili” dei direttori penitenziari, né quelli degli altri operatori penitenziari, atteso che il mondo del lavoro penitenziario è plurale e multiprofessionale.

Però, va ricordato che in esso vi sono almeno altre quattro famiglie professionali e non, che pure lo condizionano: in primo luogo i magistrati, collocati fuori ruolo, i quali dal 1923, allorquando con Regio decreto numero 1718, l’Amministrazione penitenziaria passò dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia, occupano manu militari i vertici dell’Amministrazione penitenziaria.

Quest’ultima, pochi anni fa, è stata “spaccottata” in due differenti dipartimenti, moltiplicando così le funzioni apicali a vantaggio sempre dei magistrati: quella dei detenuti adulti e l’altra dei soli minori. Ma quest’ultima solo parzialmente, perché per dare maggiore peso al nuovo dipartimento, visto l’esiguo numero di minorenni allora in carico (neanche quattrocento), distribuiti in ben diciotto istituti penitenziari dedicati, si è deciso che negli stessi fossero accolti quanti, pur avendo superato i 18 anni e fino all’età di 24 anni compiuti, avessero commesso il reato da minori, dando così vita a una esplosiva miscela: quella di adolescenti costretti a convivere con giovani adulti, in contesti che avrebbero potuto favorire, ictu oculi, tra quattordicenni e ventiquattrenni, inevitabili gerarchie interne, emulazioni, sopraffazioni, violenze. Ma la cosa, forse, non era ritenuta importante dall’allora board amministrativo che rimase silente. Farlo, è un mio sospetto, avrebbe inoltre significato “ridurre” il peso del nuovo dipartimento e anche il numero delle cariche apicali, le più importanti assegnate a magistrati.

Altra famiglia è quella degli operatori penitenziari per passione: il volontariato, costituito da singoli benemeriti cittadini e da una pletora di organizzazioni e associazioni. Queste presenze, nel tempo, hanno supplito le carenze dello Stato. Un esempio? Se un detenuto in miseria e appena arrestato (in verità lo sono quasi tutti) ha bisogno di un ricambio di mutande, non sarà l’Amministrazione penitenziaria a dargliele, perché, a dispetto delle norme, non le ha da decenni; fortunatamente, però, intervengono la Caritas, la Società di San Vincenzo, la Comunità di Sant’Egidio; così accade anche per tante altre necessità individuali.

Altro esempio: quando un detenuto viene scarcerato senza il becco di un euro, semmai da un carcere lontano centinaia se non migliaia di chilometri dal suo luogo abituale di residenza, senza neanche che possegga un borsone dove mettere le proprie misere cose, lì dove non intenda, o debba, “donarle” ai suoi compagni di cella, sarà solo grazie al buon cuore delle Ong che, in alcune realtà più fortunate, gli verrà donato uno zainetto, con un panino e una bottiglia d’acqua, una piantina della città, qualche euro e dei biglietti per il bus: l’Amministrazione penitenziaria non gli darà, infatti, niente. Il volontariato è importante ma è anche pericoloso, perché così non emergono le gravissime contraddizioni di un sistema che da anni è abbandonato a sé stesso.

Poi abbiamo i docenti della formazione professionale e del mondo della scuola, altre eroiche figure, ma la loro presenza non è spesso omogenea sul territorio. Vi sono Regioni che investono nella formazione professionale, comprendendo così che non con le volanti delle Forze dell’ordine, oppure con i manganelli, si farà sicurezza permanente sul territorio: se insegni a un detenuto che non sia incardinato nelle organizzazioni criminali un lavoro, con ogni probabilità non ritornerà in carcere. Grazie a visionari docenti della scuola e delle università, si riesce, non poche volte, perfino a ricostruire una dimensione di responsabilità e di coscienza sociale in capo ai detenuti-studenti. E questo fa bene a tutti.

Abbiamo, infine, i ministri di culto di tutte le religioni, anch’essi, all’interno dei nostri templi con le sbarre. Tra di loro i cappellani, pagati dallo Stato, in quanto rappresentano la religione ufficiale dello stesso; si potrebbero muovere delle critiche circa la mancata “pari opportunità”, ma è opportuno sottolineare che ricevono uno stipendio modestissimo, che impiegano di regola per aiutare tutti i detenuti, a prescindere dal credo professato da ognuno. Ricordo Padre Ernesto, che aveva operato per anni in Palestina; affrontava il freddo e la bora invernale di Trieste indossando solo una “pellecchia”, un giubbino senza imbottitura di plastica. Gli procurai un cappotto nuovo, un elegante Montgomery grigio scuro, perché non stonasse con il di lui sobrio clergyman, mi ringraziò, nevicava forte. Dopo qualche giorno, il capo era indossato da un detenuto. Gli chiesi il perché, mi rispose: “Non ne ho bisogno, mi riscalda il Signore”.

E infine voglio ricordare il personale sanitario, in carico alle Aziende sanitarie e alla Regione. Spesso sono medici e infermieri di buona volontà ma con scarsa esperienza; poco si investe, in verità: quando la sanità era in mano all’Amministrazione, le cose funzionavano meglio, vi erano medici ed infermieri. Se solo l’incentivassero. Rispetto a qualche anno fa, anche l’attenzione dedicata a detenuti ammalati, in particolare se tossicodipendenti, sembra essere mutata, declassificata. Soggetti con doppia diagnosi, non poche volte sono vittime di un palleggio tra Sert e Centri di salute mentale. Per non parlare del numero abnorme di malati “psichiatrici”, spesso pure “violenti”, che non dovrebbero essere inscatolati dentro le celle di cemento, perché le prigioni non sono luoghi di cura. Ma si fa finta di non comprenderlo, altrimenti si dovrebbe “ritornare” indietro, agli orribili Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che però avevano tanti infermieri e medici, altro che le attuali Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Molti non lo sanno, ma era negli Opg che si effettuavano le prime sperimentazioni di permessi all’esterno, perché si cura anche con la “libertà”, seppure per poche ore; oggi invece teniamo i pazzi, come degli animali pericolosi, dentro le carceri.

Così come non si sa che i direttori penitenziari sono stati, soprattutto in questi ultimi dieci anni e prima dell’attuale Governo, sistematicamente maltrattati. Di recente, probabilmente grazie al post Covid, pur senza contratto di categoria (lo attendono da circa 20 anni) finalmente è stato riconosciuto a essi un compenso accessorio, per le grandi responsabilità che in ogni ora devono affrontare. Molti, tra l’altro, non sanno che fino a qualche mese fa tantissimi istituti penitenziari erano privi di direttori titolari, in perfetto contrasto con le regole penitenziarie europee.

Anche l’istituto per minorenni di Milano era senza direttore titolare; si provvedeva mandando, a rotazione, dei dirigenti che già lo erano in altri istituti. Al riguardo, immaginate una grossa e malandata nave, che attraversa un mare agitato e che veda il suo comandante per due, tre giorni alla settimana, lasciarla, per poi trasbordare, in tutta fretta, su un’altra che inevitabilmente non conosce, affidatagli “in missione”. E questo per mesi, talvolta per anni. Ovviamente senza alcuna gratificazione. Quando si arriva all’istituto in missione, il direttore guarda l’orologio, deve tesaurizzare la risorsa “tempo”. Lui si affida al personale che trova nell’istituto, il quale l’aggiornerà sulla situazione, indicandogli le priorità: solo problemi da risolvere e poche volte possibili soluzioni. Le criticità saranno quelle di sempre: “Dottore, si è rotta la caldaia del riscaldamento e i detenuti sono arrabbiati”. Oppure: “Oggi mancano all’appello dieci agenti, sa, l’influenza! Dovremmo ridurre i posti di servizio e ci sarà un calo della sicurezza, ma non possiamo fare altro, abbiamo già esaurito il monte ore straordinario e non possiamo revocare congedi, ferie e riposi settimanali, perché i sindacati ci assalirebbero!”. E ancora “dottore, ci sono da fare i consigli di disciplina, prima che vadano perenti, ma non abbiamo a disposizione gli psicologi perché hanno già esaurito da tempo il loro monte orario !”; “direttore, gli agenti si lamentano della mensa di servizio, perché dicono che il cibo fa schifo e vogliono iniziare una protesta !”; “dottore, il pm vuole assolutamente che il detenuto sia posto in isolamento giudiziario, seppure non sappiamo dove metterlo, perché tutte le stanze sono sold out, non abbiamo neanche più i materassi!”.

In passato, ho conosciuto uno, anzi una, dei direttori in missione del carcere Beccaria: collega seria, rigorosa, “legale”! Mi spiace che il suo nome emerga in termini dubitativi rispetto alla sua professionalità. E, ne sono certo, saprà spiegare ogni cosa; sono altri, invece, che continueranno a rimanere in silenzio, quelli che, con il loro non fare dall’alto, hanno consentito che maturasse il clima del disagio, della vergogna e del disonore. Ma non è questo il modello autentico di prigione “italiana”, che non ha bisogno di muscoli, di batterie di taser, di filo spinato o altro. Bensì, molto più semplicemente, di ragionevolezza e di buona amministrazione, di personale “vocato” alla mission del carcere. Non invece di chi, indossando l’uniforme o gli abiti borghesi, voglia evadere da esso prima che lo facciano i detenuti.

(*) Coordinatore nazionale della dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae

Aggiornato il 30 aprile 2024 alle ore 10:24