Uomini insegnanti cinquantenni: il guaribile trittico dei suicidi

Dal burnout ai suicidi degli insegnanti – soprattutto uomini – il passo è breve. Fermiamo l’indifferenza del mainstream verso i disagi dei maschi, soprattutto se etero, bianchi e magari cristiani o senza mascara.

Se l’insegnamento è nutrimento per la mente, e per la vita dei cittadini maturi del domani, non dovrebbe causare un cedimento di fronte alla vita. Non dovrebbe mai portare al suicidio. Ma tra il 2014 e il 2024 l’Italia ha visto ben 110 insegnanti – tra maestri e professori – suicidarsi per quel frustrante quid pluris letale che va oltre il burnout scolastico.

Dagli indizi ricavati in ambienti lavorativi di riferimento, anzitutto dalle associazioni d’insegnanti, si sono ricostruite le vite e il malessere di quei docenti che, a causa delle delusioni derivanti dalla vita scolastica, hanno ceduto irreversibilmente. In realtà pare che i suicidi dovuti alla vita in cattedra siano ancora di più, ma è difficile accertarli in quanto tali.

Centodieci, scritto in cifre o in lettere, appare un numero troppo elevato, insostenibile al pensiero, in una Repubblica civile che, ai sensi dell’articolo 9 della Costituzione, promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, in un Paese a tessuto liberale la cui Carta costituzionale all’articolo 33 sancisce che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. Nove più trentatré, e arriviamo all’articolo 42 della Costituzione, che riconosce e garantisce la proprietà privata. Anche quella immateriale di carattere intellettuale, come quella insita nell’identità individuale dell’insegnamento, il cui valore morale – al di là di quello economico – resta e non muore con i suicidi di quegli insegnanti logorati da vite scolastiche che non facevano più al caso loro. Di fronte a tali suicidi, a morire è la dignità della nostra società, che dimentica la tradizione dell’insegnamento italiano e il suo spessore valoriale.

Centodieci in questo caso non è il punteggio di una laurea a pieni voti, ma il numero dei sacrifici umani di uno spaccato della nostra società che, negli anni Dieci del corrente secolo, ha chiuso a chiave gli insegnanti nei limbi delle precarietà, in preda al disordine etico che imperava tra vari ragazzi, superdotati di tecnologie smart sempre a portata di mano e sempre meno di strumenti educativi all’altezza delle nuove sfide socioculturali. Negli ultimissimi tempi, invece, si sta sviluppando una prima presa di coscienza su questi aspetti e le scuole non sono più a digiuno (almeno) della presa in carico della sfida etica transgenerazionale che ci attende.

Si parla spesso di fragilità delle donne nei sistemi sociali. Stavolta, al di là delle asfissianti apnee del politicamente corretto, parliamo delle fragilità degli uomini, insegnanti, magari arrivati alla soglia dei 50 anni. Nella tragica carica dei 110 insegnanti suicidi del decennio che ci siamo lasciati alle spalle, infatti, troviamo persone con un’età media di poco più di 50 anni, 65 donne e 45 uomini. Ma se pensiamo che le donne rappresentano ben l’83 per cento del corpo docente italiano, sono quei 45 uomini a preoccuparci in percentuale. Troppi uomini non reggono la vita scolastica dal lato della cattedra, per la perdita d’autorevolezza dei docenti di oggi agli occhi delle famiglie, e per un represso desiderio diffuso di occuparsi di affari più redditizi, in una società in cui purtroppo la cura dei bambini e dei ragazzi è vista come roba da donne (nemmeno tanto in carriera).

Occorrerebbe un’indagine sociopsicologica sul rapporto tra l’essere uomo, maschio, e l’essere insegnante di scuola, oggi, in questa post-contemporaneità sul cui divenire storico dobbiamo ritornare a nutrire speranze evolutive. Al posto dei suicidi. Potremmo intanto partire dal cambiare rotta rispetto alla palese indifferenza del mainstream culturale verso il maschio “qualunque”, magari etero e bianco, e magari cristiano o semplicemente senza mascara sul viso.

Aggiornato il 25 luglio 2025 alle ore 15:25