Tra i Paesi dell’Unione europea, l’Italia registra ancora un deficit nella capacità di trattamento dei rifiuti differenziati, da avviare a riciclo (prima fra tutte la frazione organica), ma anche nella capacità di valorizzazione energetica di quelli indifferenziati. In particolare, tali carenze impiantistiche si manifestano in alcune importanti regioni del Centro-Sud d’Italia, come il Lazio, la Campania, la Puglia e la Sicilia. Il fenomeno è causato dai limiti presenti sia nella pianificazione regionale, sia nella sua attuazione. Da aggiungere, poi, la non chiara attribuzione delle competenze legislative in materia ambientale tra Stato e Regioni, anche alla luce della riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione del 2001. Una situazione di incertezza che si è trasformata in un vero conflitto istituzionale, con rallentamenti e inerzie nell’attività di pianificazione sul territorio. È evidente che la realizzazione delle infrastrutture (necessarie) per il Paese, sarebbe stata fattibile, con il conferimento dei poteri esclusivi allo Stato centrale. Il ritardo infrastrutturale e tecnologico (nell’ambito della gestione dei rifiuti) è inoltre dipeso dalle tante opposizioni di natura politico sociale che a livello territoriale sono sorte per scagliarsi contro la costruzione degli impianti necessari all’attuazione del modello di economia circolare e al rispetto della gerarchia “europea” dei rifiuti.
Il “no” ai termovalorizzatori, ai biodigestori e agli impianti di riciclo è rappresentato dal populismo ecologista e da comitati di cittadini e associazioni affetti dalla sindrome di Nimby (Not In My Back Yard: Non nel mio cortile) e da diverse forze politiche che, non volendo perdere consenso elettorale, decidono di non approvare tali progetti o di posticiparli a mandati futuri. Si tratta di un vero e proprio movimento trasversale del “no”, capace di esercitare un grande potere di influenza sull’opinione pubblica, prospettando solo disastri ambientali e danni alla salute e muovendosi per pura ideologia, a prescindere dalla correttezza delle informazioni e della comunicazione. Ci sono altri elementi che hanno contribuito ad alimentare il gap infrastrutturale nei territori del Centro-Sud. In primo luogo, la lunga durata dei commissariamenti negli anni Novanta e nei primi anni del 2000, che ha condotto il Mezzogiorno verso una logica di gestione emergenziale del ciclo dei rifiuti, la quale ha, alla fine, limitato quel normale processo di programmazione tipico delle gestioni ordinarie, con conseguenze negative rispetto alla realizzazione dell’impiantistica necessaria alla chiusura corretta e sostenibile del ciclo dei rifiuti stesso.
Senza trascurare il fatto che in quelle realtà territoriali, afflitte dall’emergenza rifiuti, si sono manifestate varie forme di criminalità organizzata, generando l’intervento della magistratura e il conseguente annullamento degli affidamenti, oltre all’arresto degli amministratori coinvolti e alla chiusura degli impianti. In secondo luogo, l’iter complesso delle procedure autorizzative, per effetto di un sistema burocratico da sempre farraginoso (anche se negli ultimi anni ci sono stati alcuni ritocchi legislativi finalizzati alla semplificazione amministrativa) ha reso difficile l’avanzamento dei progetti di realizzazione delle infrastrutture interessate. Infine, bisogna segnalare la bassa credibilità delle istituzioni, causata da quelle scelte (l’esempio lampante è quello recente del Comune di Roma) che tendono ad essere sempre ostacolate, poiché prive di un reale coinvolgimento da parte della popolazione residente, che dovrebbe essere sostenuto da una comunicazione chiara, semplice ed efficace delle informazioni scientifiche inerenti al tema del ciclo dei rifiuti.
Infatti, in diversi Paesi dell’Ue, il coinvolgimento più ampio della popolazione locale nella definizione della strategia impiantistica, è ormai una buona pratica, in grado di attivare il giusto consenso per la realizzazione delle infrastrutture necessarie alla chiusura sostenibile e corretta proprio del ciclo dei rifiuti. Un consenso avvalorato anche dalle approfondite analisi dei costi e dei benefici, con la precisa quantificazione delle compensazioni da riconoscere alle popolazioni interessate. Insomma, per evitare l’effetto Nimby nei nostri territori, è necessario lavorare sul costante dialogo tra tutti i soggetti interessati, sull’informazione scientifica, che deve essere chiara ed efficace, sulla diffusione di una nuova cultura ambientale (attraverso la collaborazione “responsabile” di scuole, imprese e associazioni) e sulla progettazione “partecipata”, partendo dalla fase di analisi e di formazione delle idee progettuali fino ad arrivare alla realizzazione delle stesse, come avviene in diversi Paesi dell’Ue.
(*) Presidente di Ripensiamo Roma
Aggiornato il 16 aprile 2024 alle ore 12:32