Un altro evaso con i piedi in avanti, un altro entrato ieri e oggi già fuori, un altro della cerchia dei privilegiati che non va mai in galera né sconta mai la propria pena, uno di quelli ben incasellato nella maldestra teoria “tanto in galera non ci va più nessuno”. Un altro, insomma, che pensiamo di conoscere bene attraverso l’inondazione di informazioni cui siamo soggetti con la messaggistica istantanea, i social network, la rete. Ma a guadare bene, non siamo a conoscenza di un bel niente, sembriamo anzi coinvolti in una sorta di danza ossessiva, di un rumore assordante, col calesse in tour nel mondo che disconosciamo, ma che furbescamente è studiato a tavolino per solleticare gli ombelichi piuttosto che la ragione.
Intanto però, un altro s’è impiccato, avvinghiato alla torsione innaturale dell’indifferenza, malcelata anch’essa, finanche ingannata dalle parole, dalle giustificazioni, dai deliri di onnipotenza di chi non ha mai la più piccola delle responsabilità. Il carcere è un pantano di farneticazioni, di commiserazioni, ognuno la butta in vacca a proprio uso e consumo, a proprio vantaggio e svantaggio della verità, della giustizia e persino della pietà. I morti ammazzati e quegli altri rimasti in vita ma lesionati per sempre, sono liquidati con la richiesta di nuovo organico, di vuoti istituzionali inaccettabili, di assenze di ruoli dirigenziali. Omettendo accuratamente il fare di conto, il rapporto di uno per uno e mezzo, detenuto e agente.
In Europa siamo quelli del maggior numero di sorveglianti assunti nelle galere, mentre invece e colpevolmente siamo quelli del “ma che ce ne frega” se educatori, specialisti, esperti, figure centrali di ogni possibile tempo e spazio rieducativo, di progettualità a un percorso di rivisitazione critica del proprio vissuto, di impegno alla fatica e alla volontà di cambiamento, risultano perennemente in disarmo. Il carcere ha necessità di riappropriarsi del suo scopo e della sua utilità, perché nella recidiva inarrestabile per cui si esce peggiori di quando si è entrati, c’è la declinazione-epitaffio del suo fallimento. In questa assenza di intuizioni e progettualità, si ricercano le più incredibili ortopedie penitenziarie, evitando di sottolineare l’urgenza di un vero e proprio ripensamento culturale, a partire dal fatto che in carcere ci sono le persone e non soltanto cose.
Aggiornato il 10 aprile 2024 alle ore 09:33