Nel lontano 1955 Paul Felix Lazarsfeld ed Elihu Katz davano alle stampe il loro saggio Personal Influence: The Part Played by People in the Flow of Mass Communications, nel quale misero in luce come la pubblicità, che agisce a pioggia sulla massa, non sia sufficiente a decretare il successo di un prodotto, se non viene avallata da persone fisiche che godano di autorità e rispetto, soprattutto professionale. Un nuovo prodotto farmaceutico, per esempio, anche se ampiamente pubblicizzato, corre il rischio di essere trascurato dai medici, se non viene sostenuto anche da un leader locale del mondo della medicina.
L’ulteriore sviluppo dei mass media, e di Internet, ha tuttavia modificato la situazione e fatto emergere due nuove figure: prima i così chiamati testimonial e, più recentemente, in particolar modo grazie alla Rete, gli influencer. L’aspetto più interessante di questo doppio fenomeno è il fatto che, in ambedue i casi, si tratta di personaggi che non hanno necessariamente qualche competenza riguardo al prodotto che supportano, bensì basano la loro influenza semplicemente sulla loro notorietà dovuta a qualche attività di successo: nello sport, nel mondo della musica, del cinema e così via.
Viene così a perdersi il legame fra la perizia e il suggerimento competente, che vengono sostituiti dalla generica relazione magica che si suppone possa sussistere fra il vip e il prodotto o il servizio che egli sostiene. E la cosa sembra quasi sempre funzionare. Nel caso di Internet, in particolare, grazie alla sua apertura e alla mancanza di verifiche puntuali, l’influenza può riguardare non più solo dentifrici o elettrodomestici, ma anche stili di comportamento, immagini di vita quotidiana e perfino atteggiamenti etici o politici. Sotto il profilo sociologico, è l’ennesima dimostrazione che, da sempre, molta gente ama farsi guidare, e imitare, piuttosto che pensare e decidere individualmente. Si tratta di un fenomeno definibile come aggregazione (che risuona come il latino ad gregem) in qualche misura inevitabile, poiché milioni di persone non possono certo distinguersi fra loro attraverso differenze illimitate.
Ma le dimensioni quantitative del fenomeno e, soprattutto, la diffusa disponibilità a seguire le proposte altrui con atteggiamenti entusiastici, con l’imitazione dello stile esteriore dell’influencer o, appunto, l’acquisto di prodotti da lui o lei veicolati, sono sicuramente il segno del superamento di una linea rossa niente affatto positiva. Ciò è particolarmente chiaro se, invece che proporre scarpe o panettoni, l’influencer, magari già possessore di notorietà precedente – come nel caso di Beppe Grillo – si offra come illuminato portatore di idee politiche che, facendo leva sull’istinto gregario e sul malcontento sempre in essere in qualsiasi tempo e società, indica obiettivi e modi tipici di un giustiziere finale. È ovvio che, anche in casi di questo genere, l’incompetenza la fa da padrona. E a promuovere il successo è la notorietà in quanto tale, non certo un’improvvisata teoria politica la quale, in effetti, finisce da un lato per mostrare la propria popolarità, più che altro, nelle sue indicazioni distruttive – contro questo e quello – e, dall’altro, mette in primo piano seguaci e rappresentanti a dir poco sbiaditi e irrilevanti.
Questa nuova sorta di stratificazione sociale, che vede poche centinaia di influencer e milioni di influenzati, che non raramente si identificano con centinaia di furbi e milioni di persone dominate da un’inconcludenza critica di cui non avvertono i sintomi, è uno dei più grossi problemi che le democrazie dovranno affrontare nei prossimi anni. Poiché questioni rilevanti di ordine stilistico, etico, economico, politico o scientifico non si possono coniugare a lungo, nei modi attuali, con quella che, illusoriamente, viene definita società della conoscenza.
Aggiornato il 11 marzo 2024 alle ore 10:25