Una processione laica dello Stato per Beniamino Zuncheddu

La storia sarebbe potuta essere narrata da José Saramago, chissà, poteva essere una sorta di continuazione del romanzo Saggio sulla lucidità, oppure da Franz Kafka, con il suo vivido surrealismo, ma comunque sarebbe stata uno storia di quelle che penetrano nella testa del lettore come una sorta di incubo, perché quella di Beniamino Zuncheddu è una vicenda capace di contorcerti le budella, capace di svegliare le peggiori angosce che sono rintanate nella coscienza più profonda di ognuno di noi, quelle di cui si ha una ancestrale paura. Vedersi strappati circa 33 anni della propria vita, perché incolpato di una serie di ammazzamenti che non hai commesso, in nome di una Giustizia a lungo indifferente, che non ti crede e che liquida la tua avventura terrena con una sentenza senza appello, che ti fa passare da una condizione di libertà ad altra in cui non sei più nessuno, ripeto nessuno, e che ti cataloga come malvagio per sempre, pluriassassino, autorizzando chiunque ti incroci di considerarti un crudele assassino, è difficile anche da immaginare per qualunque persona, anche se si fosse dei superuomini, degli eroi, dei santi. Ma noi siamo società civile, siamo abituati a trovare risposte “normate”, rimedi giuridici ad ogni cosa e per ogni problematica, lo faremo anche questa volta, diamine!

Ma esisterà, per davvero, un qualcosa di umano, di progredito, di accettabile che possa bilanciare il dolore che questo uomo ha dovuto ingiustamente sopportare? Cosa potrebbe mai compensarne il dolore, ma anche rabbia, le paure, le vergogne e i tanti presumibili disagi che la vita carceraria gli ha riservato, senza alcuna clemenza?

Francamente, non credo che possa esserci una qualunque valida, ragionevole, umana riparazione e anche il benessere materiale e spirituale che saprà, eventualmente, riconquistare, dopo un probabile e defatigante iter processuale, perché ci sarà pure chi affermerà, per conto dello Stato, che le di lui richieste sono “esose”, difficilmente colmerà quel vuoto di “altra vita”, di una vita non vissuta, di una vita strappata dalla carne viva, quella che oggi è la sua carne invecchiata e piegata dalle sofferenze anche fisiche patite. Ma dai! Dopotutto era un pastore, pastore veramente, non quello che cura le anime dei fedeli, la sua vita era comunque faticosa, quanto può valere? Ma ancorché la mia riflessione possa risultare semmai banale, come lo è forse la vita, quella della generalità delle persone, essa rimane comunque l’unica di cui disponiamo e forse talvolta la troviamo anche appagante se non fosse violata, finanche meravigliosa, interessante, comunque propria e assolutamente nostra: di essa, però, un bel tratto è stato rubato e non c’è più, semplicemente non c’è più, “plof”, caduta, spiaccicata per terra.

Ho spesso pensato in queste settimane quali rimedi, lo Stato, la Comunità e le sue istituzioni avrebbero potuto escogitare per tentare di sanare il grande male causato, ma non li ho trovati, perché non ce ne sono, semplicemente non esistono. Però qualcosa, almeno di simbolico, andrò fatto, andrebbe fatto. Dopo il bene della vita, che è indubbiamente il primo dei diritti fondamentali della persona in qualunque latitudine geografica, il secondo è certamente la condizione di libertà. A tal proposito, la libertà immolata di Beniamino mi evoca il tema dei sacrifici religiosi, d’altronde lo stesso processo è un rito: i giudici e l’avvocato indossano dei paramenti, le più alte magistrature indossano gli ermellini, vi sono perfino i copricapi che evocano la mitra dei sacerdoti (un mio grande cappellano carcerario mi diceva sempre, ironicamente: “Direttore, quella cosa rappresenta l’estensione del nulla”), hanno addirittura una sorta di scettro che talvolta espongono nei momenti solenni, all’apertura dell’anno giudiziario.

Ebbene, allora, per appaiare, forse sarebbe da pensare ad una processione pubblica riparatoria, ancorché laica, “agita” dallo Stato, che veda in testa l’organo che la rappresenti più di ogni altro: il presidente della Repubblica, che lo è anche del Consiglio superiore della magistratura, seguito dai ministri di Giustizia e dell’interno, nonché di tutti coloro che si sentano in qualche modo coinvolti nella vicenda, ancorché incolpevoli. Tutti, in composta processione, potrebbero recarsi presso la casa di Beniamino e lì, sulla soglia dell’umile ed onesta abitazione, di fronte a lui, per qualche secondo chinare il capo, chiedendo, in nome dello Stato, perdono. Anch’io, per quanto irrilevante cittadino, semplice persona comune, se mi fosse consentito, mi intrufolerei nella processione. So di non avere colpe, ma tutto è comunque nato in quella che è, o meglio è stata, anche la mia casa... quella della Giustizia. Non sarebbe questa processione un atto di vergogna per lo Stato, ma un atto di coraggio e di forte convinzione dello stesso nei propri valori costituzionali che, altrimenti, nulla sarebbero, se non solo un tossico fumo giuridico, finalizzato a confondere piuttosto che ad essere società civile. Inoltre, sono convinto che questo gesto, apparentemente solo simbolico, sarebbe da sprone per un reale cambiamento delle coscienze, riflettendosi sul modo di fare davvero sicurezza e giustizia, finalmente. Sarebbe il primato del rispetto delle regole che aiuta tutti, sia chi subisca il diritto, sia chi lo modelli nella fatica quotidiana dei processi, con l’impegno e l’umiltà del servitore dello Stato e con la compartecipazione indispensabile di chi eserciti il nobile diritto alla difesa.

(*) Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei)

Aggiornato il 04 marzo 2024 alle ore 11:31