Nella distrazione generale si sta ridisegnando un “nuovo” modello di Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, involvendolo in altro, apparentemente più “securitario” ma più vicino a un certo modo di immaginare la giustizia e la pena, più distante dal mondo di quanti coltivino ancora l’idea di un diritto compassionevole, pur se esigente nei principi di legalità, che ha, però, “il difetto” di non percepire come “nemici” il mondo dell’avvocatura, delle università, delle associazioni che si occupino della tutela dei diritti umani e del diritto in genere, ritenendo che proprio la cura degli stessi, ove si perpetrino delle violazioni o vengano banalizzati, costituiscano, essi sì, una lesione del bene della sicurezza di tutti i cittadini.
Fino a qualche tempo fa, la figura del direttore penitenziario era avvertita come fondamentale, e non perché dovesse essere coraggioso come “Brubaker”, oppure inquietante, come quello del Silenzio degli innocenti, ma in quanto si riteneva necessario un profilo di “public servant” distinto da quello del magistrato, così come dal poliziotto, come le stesse Regole penitenziarie europee (vedasi gli articoli 71 e seguenti, Parte V del testo richiamato) impongono.
Andava da sé che il direttore d’istituto o di Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) lo ritrovasse ai vertici degli apparati, grazie a una progressione di carriera basata sulle competenze ed esperienze maturate nel tempo. Solo le posizioni apicali di alta amministrazione, prettamente di nomina politica, in particolare quella di capo del Dap, provenivano dal potere giudiziario, che esercitava, ed esercita ancora, una sorta di singolare diritto di prelazione, se non anche di “curatela” del sistema delle carceri (e gli effetti si vedono tutti), escludendo ogni altro “giurista”, ivi compresi gli avvocati e/o di docenti universitari e, nonostante la legge lo consentirebbe, quanti siano già dirigenti generali della carriera dei direttori. Il sistema era, poi, arricchito da un panorama multiprofessionale di funzionari giuridico-pedagogici, assistenti sociali, funzionari contabili, tecnici (architetti, ingegneri, tecnici edili, agronomi, ingegneri ed esperti informatici), altro personale amministrativo e, “quando si era antichi”, anche da medici, infermieri, oltre che dagli stessi appartenenti al corpo della Polizia penitenziaria distinto, quest’ultimo, nei diversi gradi e ruoli.
Finalmente, però, con la legge del 2005, numero 154 (cosiddetta Meduri), e il decreto legislativo numero 63/2006 (articoli 2 e 4), si stabiliva un percorso concorsuale per la dirigenza penitenziaria, che si precisava dovesse essere “unica”, accessibile a candidati “esterni” e, in una percentuale del 15 per cento, pure a quelli “interni”, purché provenienti da qualifiche professionali che precedessero quelle dirigenziali; la carriera era aperta anche ai commissari della polizia penitenziaria; condizione per tutti era che si fosse muniti di laurea. Con gli “interni”, il Ministero della Giustizia avrebbe attinto, con una maggiore velocità nell’inserimento lavorativo, dal proprio risorse umane, motivandole ulteriormente. È, invece, accaduto che con una legge successiva, pure non abrogando le precedenti, la numero 124/2015 (cosiddetta legge Madia) e le susseguenti, per il riordino delle Forze di Polizia, si sia data vita, dilatandone il bacino, ad una distinta dirigenza, quella della Polizia penitenziaria, partorendo un numero rilevante di dirigenti in uniforme. Nel contempo, però, non solo non si effettuavano i necessari concorsi per colmare i vuoti formatisi nel ruolo dei direttori penitenziari, ma dopo quasi 20 anni dalla legge Meduri (forse per un rimuginìo “in odium fidei”, perché all’epoca il disegno di legge fu sostenuto dall’intero gruppo di Alleanza Nazionale), i direttori penitenziari sono ancora senza il loro primo contratto di categoria, praticamente sono dei “sans papier” del pubblico impiego.
Guardando il bicchiere “mezzo pieno”, si potrebbe osservare che così, all’interno delle carceri, ci sia una qualificata dirigenza in uniforme, capace di affrontare le tante criticità di cui ci riferiscono le cronache: parliamo di ben 715 dirigenti di Polizia penitenziaria a fronte di 190 istituti; potrebbero essercene quasi quattro per ogni carcere, senza distinguere tra piccole, medie e grandi strutture. Ma così non è, anzi, c’è una fuga dalle prigioni, e non si tratta di detenuti! Nel contempo, continua ad aggravarsi la pericolosissima carenza di direttori penitenziari: molti di essi hanno dovuto, contemporaneamente, governare più istituti o uffici; finanche tre, quattro se non anche più realtà di lavoro; compresi quelli posti sulle isole, costringendoli ad ininterrotti viaggi dal Continente. A tale carenza si aggiunge quella degli agenti e assistenti, dei sovrintendenti e degli ispettori. Molti di loro, come per i direttori penitenziari, sono prossimi al pensionamento.
Insomma, mentre quelli della “linea del fuoco” sono piegati da turni ed orari massacranti, devastanti per chi volesse conciliarli con gli interessi familiari, amicali, personali, altri dipendenti sono “scomparsi”. Com’è noto, nelle sezioni detentive il rapporto tra agenti e detenuti può essere di uno a trenta, se non quaranta, cinquanta oppure cento ristretti.
Ma non basta, perché, al fine di non incorrere nei gravami della Cedu, i “Soloni penitenziari” del carcere parlato nei convegni, ma non vissuto sulla propria pelle, non sapendo affrontare le condizioni degradanti e disumane di molte strutture, hanno imposto, senza adeguare gli organici, che in molte realtà venisse consentito ai detenuti di circolare liberamente nelle sezioni. Da lì l’ulteriore lamentazione sul pericolo in cui versi l’agente che operi all’interno delle carceri, letteralmente “circondato” dai ristretti che dovrebbe lui, invece, controllare. Detenuti ai quali si nega nei fatti ogni trattamento rieducativo attraverso il lavoro, la formazione professionale e quella scolastica.
Ma non basta, perché materie amministrative delicatissime, dove l’esigenza della terzietà è fondamentale, stanno per essere affidate proprio ai neo-dirigenti della Polizia penitenziaria. Si è perfino partorita la nuova figura del viceconsigliere del Corpo (ovviamente non operante all’interno delle carceri), offrendo così un’ulteriore via di fuga a quanti vogliano lasciare alle spalle il mondo delle grate e dei cancelli di acciaio. Si intende, tra l’altro, ritornare ad un’architettura burocratica che riesuma le antiche “Divisioni” ottocentesche degli uffici, dove i dirigenti della polizia penitenziaria tratterranno il Contenzioso di Polizia penitenziaria, gestiranno il Gruppo di intervento operativo, i concorsi del personale in uniforme e il delicatissimo settore della disciplina, nonché altre attività amministrative, che richiedono competenze giuridiche ed esperienza, oltre che l’assenza di ogni coinvolgimento o interesse personale diretto, ancorché di natura politica e sindacale.
Ci si potrebbe imbattere, infatti, in casi in cui vengano trattate pratiche di colleghi del proprio ruolo professionale e anzianità, praticamente ipotetici “competitori” nella progressione di carriera! Ha ancora un senso il brocardo “quis custodiet ipsos custodes?”. Se, però, si spera che così facendo le carceri saranno più sicure e funzionali, con un minor rischio di rivolte, con i detenuti più disciplinati, che si ridurrà il numero di aggressioni verso il personale del Corpo, costituito, in quota parte, da canuti “agenti”, mentre i loro dirigenti, che popolano il dipartimento e i provveditorati (diversi dei quali, probabilmente, non hanno mai visto da vicino un detenuto che si auto-lesiona, oppure una crisi d’astinenza di un tossicodipendente, oppure un folle che sfascia letteralmente la cella, o il detenuto che, proclamandosi innocente, tenta d’impiccarsi), resteranno a debita distanza, si commetterebbe un grave errore. E, purtroppo, temo ce ne accorgeremo presto.
(*) Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei)
Aggiornato il 24 gennaio 2024 alle ore 13:00