La partecipazione civica quale modulo decisionale ed organizzativo più efficiente, indicativo di una parità sociale piena ed effettiva, viene intesa come un vero e proprio diritto d’ispirazione costituzionale. È stato infatti rilevato, nella dottrina storiografia, come i diritti alla partecipazione, il riconoscimento delle esigenze di vita, la solidarietà sociale costitutiva del Welfare State sono stati al centro di uno spazio sociale composito e trasversale. Quest’ultimo è riuscito a focalizzare il fattore disabilità come esperienza concretamente vissuta. Che si sia culturalmente dentro o fuori rispetto a queste correnti di pensiero, in Italia si devono proteggere i diritti dei più fragili, in modo pieno, realistico, effettivo.
L’Italia in quanto Stato costituzionalmente tenuto a conformare la propria legislazione interna agli obblighi internazionali, ed in ragione del vincolo derivante dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità del 2006, è tenuta ad armonizzarsi giuridicamente con il concetto di “uguaglianza inclusiva”. Quest’ultima tipologia di uguaglianza ridefinisce il concetto di uguaglianza sostanziale, individuandone le differenti dimensioni fra loro complementari.
Una dottrina che ha analizzato la Convenzione in questione, così, ha osservato l’esistenza di quattro dimensioni di eguaglianza inclusiva: redistributiva, di riconoscimento, partecipativa, di accomodamento.
La dimensione redistributiva indica la necessità di colmare gli svantaggi socioeconomici delle persone portatrici di handicap, rispetto a coloro che sono privi di handicap. La dimensione di riconoscimento impone di riconoscere la dignità dei disabili contrastando appropriatamente i pregiudizi e gli stereotipi. La dimensione partecipativa ha l’intento di garantire ai diversamente abili una posizione quali membri effettivi della società. La dimensione di accomodamento, invece, si riferisce al ragionevole accomodamento come viatico per l’esercizio dei diritti previsti dalla Convenzione del 2006.
Occorre quindi confrontarsi con la cultura giuridica internazionale, inclusiva, liberale, antidiscriminatoria dell’articolo 2 della Convenzione medesima. Quest’ultimo articolo ha sancito che per discriminazione fondata sulla disabilità deve intendersi “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.
Il concetto internazionale di discriminazione fondata sulla disabilità include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole. Nei casi in cui più fattori di discriminazione concorrono tra loro, la dottrina ha parlato di discriminazione multipla; quando i diversi fattori di discriminazione si sommano aggravando la condizione di svantaggio dell’individuo, la dottrina ha parlato di discriminazione intersezionale. Secondo un orientamento interpretativo dell’articolo 6 della Convenzione, quest’ultima avrebbe espressamente positivizzato i sopraesposti concetti, nella parte in cui ha sancito che gli Stati Parti riconoscono che le donne e le minori con disabilità sono soggette a discriminazioni multiple.
Quanto e come la legge n. 104 del 1992 sa integrarsi nelle panoramiche evolutive dell’ordinamento internazionale, al fine di integrare – a sua volta – le realtà sociali con le condizioni esistenziali di ogni portatore di peculiari abilità, rappresenta il punto interrogativo di ogni tempo.
Le tecnologie da considerare negli anni Venti del nuovo millennio mutano rapidamente. Le garanzie strumentali e partecipative della legge 104 potranno essere al passo con i nuovi tempi se i giuristi, gli operatori amministrativi e tutti gli interpreti del diritto sapranno sussumere i fatti concreti nelle fattispecie generali ed astratte della legge – quadro di trent’anni fa. Ed anche ciò, purtuttavia, non basterebbe per aprire le porte al nuovo che avanza.
Il momento interpretativo, pertanto, assume una vera e propria importanza missionaria.
L’era delle smart cities dovrà essere inclusiva ed accogliente, riequilibrando le divergenti abilità umane, dirigendo le libertà scientifiche, tecniche e tecnologiche verso la realizzazione di una nuova civiltà umanista. L’obiettivo, mai escatologico e mai finibile di questa prospettiva evolutiva pragmatica, deve essere la liberazione dell’individuo, partendo dalla liberazione di chi fino ad ora ha vissuto ancora oppresso dalle preclusioni sociali o dalle proprie sfortune bio-dinamiche.
Secondo una parte della dottrina, la legge 104 e più in generale gli interventi di quegli anni appaiono ispirati alla logica tendente a rendere “compatibile” per i soggetti disabili l’attuale realtà sociale. Non mancavano già allora alcune iniziative dirette ad eliminare le stesse ragioni strutturali degli ostacoli esistenti. L’articolo 5 della legge 104, d’altronde, ha enucleato una serie di princìpi paradigmatici, la cui portata sarebbe stata adattabile nel tempo ed attraverso il tempo, in una cultura delle garanzie in via di sviluppo sempre all’avanguardia. Nell’articolo 5 il legislatore, ancor prima di sancire gli obiettivi da raggiungere, ha disposto la finalizzazione di questi ultimi verso la rimozione delle cause invalidanti, la promozione dell’autonomia e la realizzazione dell’integrazione sociale.
Diversi ed ambiziosi sono gli obiettivi attraverso cui realizzare le finalità della 104. Tra questi, vi è lo sviluppo della ricerca scientifica, genetica, biomedica, sociopsicopedagogica, tecnologica, anche con programmi coordinati da istituzioni pubbliche e private, considerando la persona handicappata e la sua famiglia se coinvolti quali soggetti partecipi e consapevoli della ricerca medesima.
Un altro obiettivo è quello di assicurare la prevenzione, la diagnosi e la terapia prenatale precoce delle minorazioni, nonché la ricerca sistematica delle loro cause; e così garantire l’intervento tempestivo da parte dei servizi terapeutici, riabilitativi che assicurino il recupero consentito dalle conoscenze scientifiche, e dalle tecniche attualmente disponibili. Un importante piano di lavoro per il legislatore degli anni successivi alla legge 104 è stato quello dell’adeguamento delle infrastrutture socioculturali dei territori, nella loro pluralità eterogenea, alla finalità del decentramento territoriale per i servizi e per gli interventi rivolti a sostenere nonché recuperare le persone handicappate.
Nel variegato universo delle diversità per abilità, le classificazioni che la sociologia elabora sono molto utili ad orientare lo stesso legislatore, tempo dopo tempo, nella sua opera di legalizzazione delle garanzie in divenire. Un meccanismo giuridico euro–continentale che voglia proteggere la persona, talvolta, utilizza temporaneamente alcune peculiari classificazioni soggettive, soltanto ai fini della concreta individuazione dei fruitori di diritti ed obblighi, in una ragionevole sussunzione dei fatti concreti nelle fattispecie generali ed astratte della legge.
Nella dottrina storiografica è stato osservato come nel costruire la realtà dello Stato sociale le istituzioni realizzano delle classificazioni che hanno un peso sul modo di agire e di pensare degli esseri umani. Questa dottrina ha fatto l’esempio delle categorie presenti nell’articolo 38 della Costituzione italiana del 1948, il quale statuisce che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale”.
È stato così rilevato che alla luce della distinzione fra lavoratori e inabili, questi ultimi considerati non lavoratori, si pongono alcuni problemi d’interpretazione dell’articolo 3 della Costituzione. Quest’ultimo infatti promuove un modello di società all’interno della quale realizzare la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese, da parte di tutti i “lavoratori”. L’orientamento in questione, allora, si chiede in cosa consista il pieno sviluppo della persona umana di cui all’articolo 3 se esso non comporta, per tutti, quella partecipazione.
È sempre difficile definire per categorie le persone, che non sono meri concetti da lavagna: il “lavoratore”, gli “inabili”, i “minorati”. Le stesse chiavi di lettura del dettato costituzionale possono evolversi – e si evolvono – con il mutare degli apparati sovrastrutturali, culturali, logistici, tecnici e tecnologici. Sono questi ultimi quei fattori che rendono i diversi soggetti abili o inabili, lavoratori o non lavoratori, “minorati” o non “minorati”.
Ogni definizione ed ogni categoria deve avere alla base le anzidette consapevolezze, per potersi adagiare nell’universo delle persone in carne, diritti ed ossa. L’universo delle persone nelle proprie diversità è in divenire. Le stesse diversità nel loro modo di essere intese, percepite e vissute, dall’interno di ogni individuo su di sé e dall’esterno quale differenziata proiezione di sé sugli altri, possono essere messe continuamente in discussione. Una definizione univoca e definitiva di diversità per abilità non può quindi esistere, così come non potranno mai dirsi davvero concluse – ma al massimo “conclusive” – le considerazioni sulle esigenze di tutela giuridica dei disabili, in una cultura ispirata al poli-abilismo.
Se nell’immaginario collettivo risulta ancora arduo superare gli schemi di aprioristica normalità sociale, è possibile già raggiungere alcune conquiste di normalizzazione delle diversità, sui posti di istruzione, formazione e lavoro, in politica come in giurisdizione, nei mezzi pubblici come nelle compagnie private della mobilità e dello svago.
Discriminare irrazionalmente qualcuno per le sue diversità in abilità, emarginandolo per le sue morfologie corporee, deve diventare un fatto a cui ogni società fa seguire conseguenze di rieducativa dequalificazione sociale, affinché non accada mai più l’orrore di catalogare i cittadini in tipologie di serie A e di serie B.
Gli autoritarismi non sono solo quelli alla luce del sole, ma anche quelli occulti, sottili nel loro biopopulismo indifferente. Gli autoritarismi sono anche quelli piccoli che colpiscono soltanto i più fragili; essi sono taglienti come mine vaganti, munite di lama al veleno ed affilate da imprevedibili subculture irrazionaliste.
Non va quindi valorizzato chi non ha la sensibilità di valorizzare, nella vita associata, coloro i quali per troppo tempo hanno dovuto sopportare il dominio socioeconomico ed estetico di un modello unidirezionale, esclusivo ed escludente, di abilismo.
È bene che l’Italia si faccia pioniera di ogni futura rinnovazione garantista, Stato di diritto umano e libertario tra gli Stati di diritto più evoluti, per essere una polis nazionale aperta, attraversata e non soltanto lambita dalla cultura delle poli–abilità, per tutti.
Aggiornato il 10 marzo 2023 alle ore 17:21