Durante la presentazione del mio recente libro: Ho vissuto la vita, Ho vissuto la morte, (Armando Editore), nel dialogo con i presentatori e con il pubblico mi sono accorto nelle poche settimane dell’uscita del volume che gli argomenti della guerra, dell’alimentazione, dell’immigrazione vennero molto rilevati, mentre con riguardo alla prima parte del testo, alcune personalità decisive nella cultura italiana nel secolo scorso, sono presso che ignorate. Stupefacente come il maggiore di quel tempo, Alberto Moravia, venga poco nominato. Ci sarà modo di chiarire questo aspetto, lo faccio anche nel libro, ripeto: fu l’autore determinante per la mia generazione, da esaminare il “caso”. Torno agli argomenti prospettici. Ho l’impressione, dalle interlocuzioni, che si siano creati equivoci sui temi sopra detti. L’immigrazione: non riesco a capire perché non si sappia distinguere un’immigrazione da carenza della nazione ospitante, integrativa, normale, copre piccoli spazi, da una immigrazione non soltanto con ampi spazi ma in un Paese che invecchia e non genera, invecchia e non genera, con la evenienza nel periodo non lungo del prevalere degli stranieri. Questo è il punto, non si tratta di evitare l’immigrazione, è impossibile, si tratta di non avere un’immigrazione prolifica laddove i cittadini, i nazionali sono sterili e invecchiati. Questo il punto della problematica immigrativa.
Taluno rilevava che è fondamentale ricevere immigrati non ostili alla nostra società, ad esempio in campo religioso, politico. Certamente. Opponevo che bisogna aggiungere l’elemento quantitativo, se diventiamo minoranza nel nostro Paese (e con l’andamento odierno il rischio sussiste) o con esagerata presenza di esterni, tenuto conto che siamo nella più bassa natalità, ci decurtiamo a ogni generazione, un figlio per coppia, nel processo del tempo ci assottigliamo, siano o non siano mussulmani gli stranieri, una maggioranza o un accrescimento di stranieri pone difficoltà che addirittura si accentuerebbero. Sarebbe o non sarebbe una faccenda problematica? Mi ribattono: essere aperti, siamo tutti umani, necessario universalizzarci. C’è chi scomoda il razzismo, nomina l’antica Roma con Imperatori stranieri. Rilievi incongrui. Il razzismo escluderebbe ogni straniero. In quanto agli Imperatori stranieri che governarono Roma, la governarono a vantaggio di Roma. Dunque? Dunque anche il peso quantitativo è determinante nell’immigrazione, e non può, non deve risolvere la nostra denascita. Se crediamo di salvare il nostro Paese immigrando ma non generando saremo stranieri noi, tra decenni. E non è tesi ipocondriaca. È tesi demografica! Non è in pericolo soltanto la sovranità, ma la persistenza culturale, non è dubbio che uno straniero avrebbe minor cura di noi per la nostra cultura. Non è così? Meglio non affrontare il dubbio!
A quanto ho capito discutendo gli argomenti del mio libro, equivoci si allargano anche sull’alimentazione. Alcuni spettatori dicevano: aumentando la popolazione è necessario trovare ulteriori risorse alimentari, quindi se locuste, grilli, vermi, insetti sono commestibili perché non introdurli nell’alimentazione mondiale, nell’ambito della popolazione crescente evitando mancanza? Il discorso ha una logica. Perversa. Facevo considerare che non si tratta soltanto di introdurre altri alimenti naturali ma di alterare gli alimenti, la bistecca sintetica non è un insetto, è una costruzione da laboratorio che produce effetti che a oggi ignoriamo, non possiamo valutare perché costituisce una novità. Non abbiamo soltanto l’introduzione di cibi naturali di diversa origine non consueti da noi, si tratta di cibi innaturali e, ridico, questo comporta effetti imprevedibili, tra i quali la distruzione dei sapori, del gusto, sarebbe una rovina per l’umanità: perdere i sensi. E i sensi, con l’autocoscienza, sono l’asse terrestre dell’umanità.
La guerra. Dedico nel mio libro pagine e pagine alla guerra, considerazioni non esclusivamente politiche, anche esistenziali. La guerra suppone fondamentalmente la conservazione o meno della vita, nello stesso tempo tutelare e disprezzare la vita, uccidere o morire è il costo massimo che l’uomo può offrire a se stesso, il prezzo totale, migliaia e migliaia di persone, centinaia di migliaia, milioni, la morte, però, attacca uno a uno, ciascuno con la sua fine. E invece voleva vivere! Non sono possibili eventualità d’altro genere? Risparmiare la vita, parlare, abbiamo la parola, cercare, tentare accordi, compromessi non disonorevoli, non abietti, non vili, esistono, altrimenti saremmo già scomparsi. Hanno minor valore di quanto ne ha la vita, possono essere attuati, in nome della vita? Scrivo: si dà alla morte, alla distruzione più valore della vita, si desse alla vita più valore della morte saremmo cautissimi nel darci la guerra.
Dobbiamo pensare: le faccende economiche, geopolitiche, di supremazia eccetera valgono la vita o non possono risolversi con soluzioni non disonorevoli, non abiette? Il timore nasce da quanto viviamo: giornate a scandire i ritrovati migliori (orrendi) per uccidere. Mesi, giorni, ore, minuti con gli occhi a informarci sulla potenza delle armi, la messa in scena della distruttività, la distanza della possibilità di uccidere, la numerazione dei morti conquistati, e ci inoltriamo nella distruzione universale. Assaporare la morte, il gusto dell’uccisione, come uccidere all’estremo, e viene considerato utopistico, remissivo, perdente, amico del nemico chi tenta la pace! Ma no! Vi è gradualità nelle vicende. Innanzitutto c’è la vita, in cima, il picco del vertice. Quindi tutto il resto, la libertà, l’onore, l’arte l’espressione, e quant’altro. Se non si conserva la vita che valgono gli altri valori? Gli altri valori valgono se siamo vivi! È una assurdità morire per dei valori che morendo non possiamo godere! Li salviamo per gli altri? È impossibile salvarli per noi stessi in modi non necessariamente bellici? Dico, e dicevo rispondendo agli interlocutori, e scrivo nel libro, che non esiste soltanto la guerra per difendere i valori. Fosse così saremmo in guerra perpetuamente.
La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. La continuazione. Non rendere la guerra l’esclusione della politica ma continuare la politica aggiungendovi la guerra. L’orrore che stiamo accumulando è credere che la vita non deve essere al primo segno dei valori da innalzare. Se amassimo la vita inestimabilmente quanto merita prima di inoltrarci nella conta del pregio dei mezzi di rovina ci affaticheremmo insonnemente per evitare la guerra in nome dell’amore per la vita, considerando che un morto non godrà gli scopi per i quali muore. Allora, non combattere? All’opposto. Combattere con tutti i mezzi ossia con mezzi anche non militari. In ciò l’uomo dà la sua misura umana (umanistica). Ampliare lo sforzo per salvare onorevolmente la vita. Di macellatori persino dei propri popoli ne abbiamo sperimentati. Allora: combattere chi ci vuole togliere la libertà, assolutamente, combattere con tutti i mezzi, anche non bellici, la guerra è una prosecuzione della politica ma non abolisce la politica, è uno dei mezzi, senza escludere gli altri. E sia chiaro: occorre una sequenza di valori. Prima di mandare alla morte la gente occorre valutare se il sacrificio può essere evitato con qualche non disonorevole compromesso.
Se, fatte queste ponderazioni, tenuto conto del sommo valore della vita, si decide che è più fondato combattere e anche morire che sottoporsi ad accordi ignobili, sia guerra all’ultimo sangue. Ma se vi è possibilità di non soccombere anche senza guerra, cercare questa via. Ecco la politica, la politica, la politica esistenziale, combattere per la libertà non soltanto con la guerra. Anche perché, dicevo e dico, la guerra contiene nella sua tragicità filamenti serpigni: affarismo, vendita di armi, egemonie immotivate o irraggiungibili, dominio con esclusione di concorrenti, modi per spezzare rapporti utili agli “amici” che invece danneggiamo. E francamente difficile non percepire nella guerra odierna qualche rospo grosso e nero. Rospo o no, una considerazione. Vi è un limite alla scalata degli armamenti? Oggi la costante è la scalata degli armamenti. Si fermerà o si inabisserà fino a ricoprire il mondo di rovine frantumate? Occorre onestà: se decidiamo che vale la guerra non diamola a eseguire agli altri fornendo armi e favorendo la morte. Combattiamo anche noi. È l’unico modo per misurare la guerra! Combattere. Saremmo più responsabili. Chissà che avverrebbe se la guerra si inoltrasse da noi, come qualcuno forse intende provocare. Attualmente viviamo come gli spettatori di un quadro tremendo temporalesco che, diceva Kant, ci inorridisce, e fa sentire il sublime sconvolgitivo, ma certi che è un quadro, ci ritempriamo, ammirando rassicurati. No, la guerra si sta combattendo, i morti erano vivi. Chi sa che avverrebbe se il mercato delle armi ci coinvolgesse non solo come donatori ma come personaggi dell’opera! È stato detto che non vi sono statisti, al momento, e chi lo sarebbe (Silvio Berlusconi) viene mal giudicato. Errore funesto. Bisogna che accanto ai guerrieri vi stiano i cercatori di pace. Per vedere non soltanto la guerra. E per non ritenere che con la produzione delle armi si salva l’economia!
Aggiornato il 21 febbraio 2023 alle ore 09:30