Il 41 bis e la Xylella penitenziaria

È di ieri il messaggio giuntomi da una persona a me cara, un Rabbino che conosco da tantissimi anni e che ho sempre apprezzato per il modo lucido e razionale con il quale affronta le problematiche sociali che attanagliano i nostri tempi. Il saggio uomo mi ha invitato ad esprimere la mia opinione sulle discussioni, che indicava come un po’ surreali, che in questi giorni si sono moltiplicate sul caso del detenuto Alfredo Cospito, sul 41 bis e sui temi sicuritari afferenti il mondo penitenziario, trovando vasta eco anche all’estero.

Ci proverò, sperando di non deluderlo. D’altronde gli devo un ringraziamento, così come ai tanti altri ministri di culto delle diverse religioni – compresa quella islamica. Quando ho avuto bisogno di un consiglio, li ho sempre trovati disponibili, nei tanti anni in cui ho lavorato in carcere. D’altronde nel carcere, ogni giorno, si celebra l’eucarestia del bene universale della libertà e può accadere che si rivolgano gli occhi al Cielo, seppure attraverso le grate.

L’occasione della vicenda Cospito, una volta raffreddatosi il clima delle polemiche trasversali, potrebbe consentirci di analizzare meglio l’istituto securitario del 41 bis il quale, al netto di ogni considerazione e purtroppo strumentalizzazione, come ogni altra costruzione umana, seppure giuridico-normativa, – anche a mente del tempus in cui fu introdotto il regime rigoroso della misura, con la legge 10 ottobre 1986 numero 663 (la cosiddetta Legge Gozzini, con la quale, per converso, si rilanciò anche lo strumento delle misure premiali), già per il solo trascorrere degli avvenimenti e delle cronache, e nella consapevolezza che tante cose siano nel frattempo cambiate, non solo nel mondo ma anche nella stessa Italia – ha certamente bisogno non soltanto di una periodica e fisiologica “manutenzione”, ma anche degli opportuni aggiornamenti. Questo al fine di poter continuare ad attendere a quelle finalità securitarie le quali, ritenute indispensabili all’indomani delle numerose stragi di mafia che tanti lutti hanno causato al nostro paese, devono necessariamente pure allinearsi, doverosamente e ragionevolmente, all’esito delle diverse pronunce della Corte costituzionale, alle decisioni della Corte di Cassazione, nonché alle diverse sollecitazioni che sono giunte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel frattempo formatesi: questa non può essere ridotta ad una questione “politica” in senso partitico, perché è un’esigenza di diritto, tipica di uno Stato e di un ordinamento ove viga il principio di legalità.

Non si tratta, pertanto, di cassare il 41 bis, ma di rimodernarlo. Pure nel solco di una antica tendenza umanitaria (che non è una cattiva parola e che ci richiama a Cesare Beccaria ma anche al Granducato di Toscana) agendo con ragionevolezza. Pertanto, tale esigenza non dovrebbe essere, aprioristicamente, letta come la prova di un cedimento verso le criminalità organizzate, qualunque sia la loro matrice (mafiosa, terroristica o terroristico-religiosa), ma come di rigenerazione e rafforzamento di un istituto giuridico che, altrimenti, potrebbe per davvero cedere all’improvviso perché considerato esso stesso, in alcuni pezzi, “fuorilegge”.

E come ben sa l’amico Rabbino, il diavolo sa nascondersi nel particolare.

Se questo accadesse – e cioè se si offrissero sponde utili a quanti, attraverso le crepe di illegittimità di alcune disposizioni pratiche, esecutive, di quel regime, volessero fare delle incursioni distruttive – paradossalmente proprio lo Stato sarebbe il loro inconsapevole migliore alleato perché offrirebbe un endorsement ai veri criminali che temono tale draconiana misura, la quale andrebbe applicata dopo un rigoroso esame della personalità dei destinatari, evitando che si avvantaggino dell’aureola di martiri perché sacrificati dalla cattiva e disumana giustizia.

Al riguardo, ad esempio, un più oculato ed “intelligente” impiego di nuove tecnologie non invasive sul piano fisico in materia di controlli e di sorveglianza, insieme ad un affinamento delle capacità investigative della stessa Polizia penitenziaria, ove già da tempo possono ritrovarsi appartenenti dotati di elevate capacità professionali ed esperiti nell’utilizzo di sofisticate tecnologie, potrebbero ottenere perfino una maggiore ed efficace capacità di controllo e, soprattutto, di ricostruzioni di reti, esercitando un più sofisticato soft-power piuttosto che esporsi nelle tradizionali pratiche della sorveglianza, spesso anche penose per chi le deve attuare. Così come, introducendo nuove figure professionali all’interno del Corpo della Polizia penitenziaria, ad esempio degli psicologi e criminologi incardinandoli in un distinto ruolo tecnico, potrebbero meglio profilarsi le personalità criminali sottoposte al regime del 41 bis, la cui ratio continuerebbe a rimanere, evidentemente, quella di impedire ai destinatari di mantenere e dirigere e/o comunque condizionare, in termini evidentemente espansivi, le ormai numerose organizzazioni criminali di appartenenza, indigene e d’importazione.

Ma, accanto alle misure che sommessamente indico, ve ne sono anche altre che riterrei assolutamente indispensabili e di cui poco si parla, glissando le questioni, e cioè il dovere assicurare che in tutti gli istituti penitenziari, anzitutto quelli ove sono presenti sezioni dedicate alle persone detenute sottoposte al 41 bis, siano per davvero presenti in congruo numero non soltanto i direttori penitenziari (non poche volte mancanti come titolari) – i quali non dovrebbero dividersi in più istituti a causa di un’assenza ormai cronica di tali rilevanti ed indispensabili figure professionali, che invece dovrebbero costituire un continuo punto di riferimento, non soltanto per le persone detenute (come è previsto dalle regole penitenziarie europee) ma anche per le stesse autorità giudiziarie, sia inquirenti che di cognizione, e soprattutto per la stessa magistratura di sorveglianza – ma dovrebbe essere assicurata pure la presenza di Comandanti titolari, e non facenti funzione, dei reparti di Polizia penitenziaria.

Così come andrebbe garantita la presenza congrua ed indispensabile dei funzionari giuridico-pedagogici (quelli che all’inizio della mia carriera, allorquando anche Giovanni Falcone dava lezioni agli operatori penitenziari, nella sede di via Giulia, sentivano fortissima la tensione morale del trattamento rieducativo; si chiamavano “Educatori per adulti” ed io ero uno di loro), perché sono quelli che costruiscono l’ordito della tela dell’osservazione della personalità del ristretto, sulla quale si disegneranno, in chiave prospettica e cautamente predittiva le prognosi trattamentali, verificandone continuamente l’andamento e riferendone i risultati.

Il lettore attento, arrivato a questo punto, saprà comprendere come dalle mie parole traspaia il timore, che è quasi una certezza – se è vero come è vero che sta per partire una stagione di lotte sindacali da parte del personale penitenziario delle cosiddette “Funzioni centrali” (il che porta a pensare che si tratti di dipendenti che operino solo negli uffici “romani”, del “centro”, mentre invece ci riferiamo anche e soprattutto a quelli che lavorano nelle circa duecento carceri e in tutti gli altri uffici sparsi sul territorio nazionale, ivi compresi gli uffici dell’esecuzione penale esterna) – che il vero primo problema d’affrontare sia l’effettivo e concreto adeguamento degli organici ed un migliore trattamento giuridico ed economico del personale.

Oggi tutto il personale penitenziario, ivi compreso quello della polizia, lamenta non soltanto inadeguate condizioni retributive e di carriera, ma proprio la pericolosissima carenza degli organici. E quanto accade adesso non è frutto delle decisioni dell’attuale governo, ma il portato stratificatosi di tantissimi anni di sciatta percezione e conoscenza del mondo delle carceri, nel mentre si imbastivano solenni proclami di attenzione nei convegni o si dava vita a mille commissioni del nulla penitenziario.

Si comprenderà, pertanto, come possa apparire agli occhi di tanti operatori penitenziari incomprensibile la curiosa querelle sul caso Cospito, e su tutti i suoi annessi e connessi, perché i problemi reali sono di gran lunga superiori e non sarà certamente la vicenda dell’anarchico a destabilizzare il sistema dell’esecuzione penale, e del 41 bis in particolare, perché l’indebolimento soprattutto di quest’ultimo, dove il risalto viene dato ad aspetti davvero ancillari rispetto a quelli di sostanza, risulta essere stato già minato da una sotto considerazione dei bisogni del sistema italiano delle carceri.

Quanto affermo può trovare conferma nel fatto che vi siano tanti addetti ai lavori i quali confessino che il vero carcere duro non è quello dei mafiosi, dei camorristi e degli ndranghetisti, ma quello della generalità dei detenuti “comuni”, costretti a vivere come sardine in ambienti insalubri, senza docce nelle stanze di “pernottamento” (e ci facessero vedere, allora, i locali del tempo mattutino, pomeridiano o serale, se ce ne fossero per davvero…), con spazi spesso risicati per la permanenza all’aria aperta, con pochi punti telefonici dove poter effettuare le loro chiamate o riceverle (non tutti, infatti, possono permettersi i telefonini introdotti illecitamente, perché costano “troppo”), spesso privi di cure mediche e soprattutto psichiatriche, costretti a consumare pasti preparati di regola da cuochi per caso, dove il tempo non passa mai perché schiacciati dall’ozio forzato, etc. etc..

Sì, penso davvero che le carceri siano una grande polpetta avvelenata esibita sul piatto di portata offerto al nuovo Governo e proprio per questo la premier Giorgia Meloni, Carlo Nordio, con il suo viceministro Francesco Paolo Sisto ed i suoi sottosegretari Andrea Ostellari e Andrea Delmastro Delle Vedove, farebbero meglio a fornirsi dei necessari antidoti che sono rappresentati da quella grande ricchezza multiprofessionale costituita dal personale ancora presente, dando reale ascolto alle loro organizzazioni sindacali, le quali da anni esigono un’attenzione istituzionale non soltanto verso se stesse (mi verrebbe da dire: come da contratto, se non sapessi come esso venga regolarmente violato proprio dalla parte pubblica, sempreverde ed indifferente ad ogni voluta politica), ma verso il sistema organizzativo penitenziario, banalizzato e mortificato, ove ogni criticità non viene mai contestualizzata nel suo insieme, bensì si traduce in una condanna senza appello verso gli operatori, sia in uniforme che in abiti civili, preferendosi non tagliare i rami secchi o eliminare i frutti marci, ma estirpare tutta la pianta con le sue radici.

I filosofi del nulla cosa inventeranno adesso? Volevano superare i manicomi giudiziari e l’hanno fatto egregiamente, spostando i folli dagli Opg all’interno degli istituti penitenziari, ora dicono pure che occorra superare l’idea stessa di carcere piuttosto che esigere che le stesse strutture funzionino per davvero! Mah! Così va il mondo, caro mio amico Rabbino.

(*) Presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità di Trieste, già presidente Onorario del Centro europeo di studi penitenziari – Cesp di Roma

Aggiornato il 09 febbraio 2023 alle ore 09:54