Il regime della prova nel processo tributario

L’articolo 6 della Legge 21 agosto 2022 n. 130 introduce nel testo dell’articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546, un nuovo comma 5-bis. A una prima lettura, la norma appare conservativa e tale da non apportare particolari effetti innovativi sul riparto dei carichi probatori tra le parti del processo tributario.

In questo contributo si torna a ragionare sulla prova nel processo tributario, con specifico riguardo alla questione concernente il riparto dei carichi probatori, per come lo stesso risulta essere disciplinato all’esito dell’intervento di riforma realizzato con la Legge 21 agosto 2022 n. 130, che ha introdotto nell’articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 un comma 5-bis del seguente tenore: “L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati” (in proposito, articolo 6 Legge 21 agosto 2022 n. 130).

La norma non sembra raccogliere i favori critica; le prime voci di dottrina sono, infatti, assai severe nei riguardi del legislatore, vuoi perché “questa innovazione legislativa suona del tutto inaspettata – non si trova, difatti, riferimento alcuno ad essa nella relazione parlamentare – e quindi assai poco meditata”, vuoi perché “questa è una norma che non doveva essere scritta – se effettivamente si fosse voluto codificare un principio di questo genere – non andava scritta nella normativa processuale, andava scritta forse nella normativa sull’accertamento, forse nello statuto dei diritti del contribuente, quella sarebbe stata una sua corretta collocazione. Ma soprattutto questa è una norma di carattere generale: cosa vuol dire? Le norme contenute nella disciplina sull’accertamento e nelle singole leggi d’imposta essendo norme di tipo speciale prevalgono su questa”.

In sintesi, la dottrina denuncia la sostanziale afasia di una norma tanto pomposa, quanto apparentemente priva di consistenza dal punto di vista effettuale. Proviamo a esaminare più nel dettaglio la questione. Si è già scritto che, in punto strettamente teorico, alla struttura impugnatoria del processo tributario consegue che attore in senso sostanziale è l’amministrazione finanziaria, come tale onerata di fornire nel giudizio la prova delle circostanze di fatto che sostengono le contestazioni di maggior imponibile, le riprese a tassazione di minori costi, e via dicendo. Questo schema teorico è tuttavia alterato attraverso il sempre maggiore ricorso da parte dell’amministrazione finanziaria allo strumento delle presunzioni, previste in maniera massiccia nella normativa di riferimento, a partire dal decreto del presidente della Repubblica 29 settembre 1973 n. 600, contenente disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi, e ulteriormente accresciute nella prassi amministrativa e giurisprudenziale delle presunzioni semplici.

In buona sostanza, nel rapporto tra Fisco e contribuente, quando le dinamiche fuoriescono dal fisiologico e si incanalano nel binario del contezioso, bisogna fare i conti con il fatto che l’amministrazione finanziaria può quasi sempre valersi delle cosiddette “Prove per induzione”, ovverosia di “quei mezzi di prova che consistono essenzialmente in una inferenza che muove da determinate premesse, rappresentate da enunciati relativi a circostanze di fatto, per giungere – sulla base di idonei criteri – alla formulazione di conclusioni relative alla verità o alla falsità di un diverso enunciato relativo ad un fatto della causa”. Le presunzioni (semplici, a volte addirittura semplicissime), sono lo strumento attraverso il quale il legislatore vuole riequilibrare la situazione di asimmetria informativa tipica del processo tributario, nel quale il contribuente ha immediata, “naturale” disponibilità dei fatti di causa (in quanto inerenti a situazioni che lo riguardano direttamente), e la parte pubblica il non semplice compito di ricostruirli, laddove intenda contestare quanto dichiarato (o omesso di dichiarare) dal contribuente medesimo.

Così, attraverso il meccanismo presuntivo, si semplifica l’onere della prova gravante sull’amministrazione finanziaria, rendendo sufficiente la prova dell’esistenza di alcuni fatti per poter inferire l’esistenza di altri, e contestualmente se ne ribalta una parte – sub specie di prova contraria – a carico del contribuente, talora sul presupposto dell’applicabilità del criterio di cosiddetta prossimità della prova. Tutto ciò dovrebbe trovare limiti precisi e vincolanti, quali ad esempio il principio di non accollare al contribuente probationes diabolicae e di non dar corso a cosiddette praesuntiones de praesumpto: “Si afferma tradizionalmente che praesumptum de praesumpto non admittitur, limitando quindi l’impiego delle presunzioni semplici ai casi nei quali il fatto noto è dimostrato con prove diverse dalle presunzioni o è percepito direttamente dal giudice, ed escludendo le “presunzioni di secondo grado”. Ab esse ad posse valet illatio, secondo un noto brocardo.

Il tema è assai delicato. L’equilibrio che governa il riparto dei carichi probatori tra le parti del processo tributario, come di qualsiasi altro processo, è spesso determinante, perché il giudice dovrebbe decidere la controversia dichiarando soccombente la parte che non sia stata in grado di dimostrare la sussistenza del fatto costituivo del diritto vantato. In materia tributaria, in tutti quei casi in cui l’attività di accertamento è assistita da presunzioni, grava sul contribuente l’onere della prova contraria e quindi grava sul contribuente il rischio di non riuscire a raccogliere – nella sede processuale – il materiale sufficiente a convincere il giudice circa la effettiva sussistenza del fatto contrario che è onerato di dimostrare. Un carico che non appare sempre idoneo a garantire sufficientemente criteri di giustizia, poiché spesso troppo gravoso e insidioso.

Gravoso, perché il processo tributario è sostanzialmente un processo documentale, stante il limite all’assunzione di prove costituende e, in particolare, della prova testimoniale. Insidioso, perché le inferenze cui le singole leggi d’imposta attribuiscono giuridica rilevanza “appartengono proprio a quel tipo che sappiamo essere il più insidioso per il senso comune: il ragionamento probabilistico” (si pensi, per fare alcuni esempi, agli accertamenti fondati sul cosiddetto redditometro, a quelli da studio di settore o ricarico medio di settore). In questo contesto, il giudice gioca un ruolo decisivo, in quanto il grado di rigore con cui valuta il compendio probatorio offerto dalle parti determina di fatto l’esito del giudizio. Se questo è lo scenario, allora, in una prospettiva di attuazione della giusta imposizione, sarebbe certamente auspicabile un intervento normativo che ridefinisse almeno in parte quell’assetto processuale per cui ora molto spesso si ha la percezione che non sia assicurata alle parti del processo tributario quella “parità di armi” che invece dovrebbe essere garantita dall’articolo 111 della Costituzione.

In questo contesto, il nuovo comma 5-bis sembra incidere in modo marginale. Tale norma, infatti, appare scritta per una casistica diversa da quella alla quale si è appena fatto riferimento, atteso che essa si rivolge in positivo a tutte quelle fattispecie in cui l’amministrazione è – in punto di diritto e di fatto – onerata di provare i fatti che pone a fondamento del suo atto di accertamento. In buona sostanza, la norma si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui l’azione di accertamento erariale non risulta basata su presunzioni. Per tali ipotesi, la norma ribadisce una conclusione che discende da sempre dai principi generali (articolo 2697 del Codice civile): l’attore in senso sostanziale deve provare i fatti che pone a fondamento della sua domanda giudiziale e lo deve fare in maniera rigorosa, sicché “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria” o “se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva” il giudice è tenuto a rigettare la domanda (a dichiarare l’infondatezza della pretesa impositiva, nel caso del giudizio tributario).

In relazione ai casi in cui, invece, l’azione impositiva si basa su presunzioni, il tenore letterale della norma in commento non sembra autorizzare la conclusione secondo cui il legislatore avrebbe inciso sul criterio con cui il giudice tributario dovrebbe valutare la prova contraria offerta dal contribuente. Una tale interpretazione imporrebbe di ritenere che il legislatore, nello scrivere il comma 5-bis, minus dixit quam voluit. Sicché nella ratio della norma si dovrebbe rintracciare una specifica volontà del legislatore della riforma di rimodulare l’equilibrio tra le parti del processo tributario, secondo un’ermeneutica che sembra tuttavia incerta, anche per la collocazione sistematica della norma in commento nella legge processuale (piuttosto che nello Statuto dei diritti del contribuente), che comunque aprirebbe lo scenario a ulteriori riflessioni circa il rapporto tra norma di carattere generale e norme speciali, cui sopra si è già fatto cenno.

In effetti, dall’inserimento all’ultima ora della norma in commento nel testo della riforma tributaria vi è chi – tra i primi e più autorevoli commentatori – ha derivato l’impressione che si tratti del “tentavo in extremis da parte del Legislatore di codificare l’esigenza di limitare un sistema diffusamente improntato all’accertamento presuntivo ed una giurisprudenza di legittimità che prevalentemente interpreta il riparto dell’onere probatorio in senso statisticamente favorevole all’Erario”. Tuttavia, una tale interpretazione non è stata sinora ipotizzata dalla Corte di Cassazione, che invece si è affrettata a ribadire il principio per cui “il comma 5 bis dell’articolo 7 Decreto legislativo n. 546 del 1992, introdotto con l’articolo 6 della Legge n. 130 del 2022, ha semplicemente ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio. Pertanto, la nuova formulazione legislativa non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria un ruolo centrale”.

Secondo la Cassazione, dunque, la norma non si applica in tutti quei casi in cui una presunzione inverte l’onere della prova, ponendolo sul contribuente. Altrimenti opinando, dovrebbe giungersi alla conclusione che, quando è il contribuente a essere gravato dall’onere della prova, si applicherebbe a sua carico il principio posto dal comma 5-bis, per cui il giudice dovrebbe confermare l’atto impositivo se la prova della sua infondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive per le quali è infondata la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Ciò che, come evidente, non solo non risolve, ma anzi si presta ad acuire quei rischi di insidiosità del sistema probatorio cui si è sopra operato riferimento. Si è di fronte, quindi, a una norma che, nella sua farraginosa formulazione, non sembra aggiungere molto a quanto già desumibile dagli ordinari principi processuali: l’opera, in tema di parità delle armi nel processo tributario ed equilibrio dell’onere della prova nel processo tributario, è quindi ancora lontana dal potersi ritenere conclusa.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 10 dicembre 2022 alle ore 09:23