Mediazione e conciliazione nel processo tributario: le novità

La Legge 21 agosto 2022 n. 130 interviene sugli istituti della mediazione e conciliazione giudiziale, senza tuttavia ampliarne l’ambito di applicazione e potenziarne l’efficacia. In particolare, per quanto concerne il reclamo e la proposta di mediazione di cui all’articolo 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 restano irrisolti i problemi che hanno sinora impedito all’istituto di assolvere in concreto a quella funzione deflattiva del contenzione per la quale era stato pensato e introdotto nel 2011.

Uno dei passaggi più deludenti della riforma tributaria di fine agosto (legge 21 agosto 2022 n. 130) è senz’altro quello che concerne gli strumenti deflattivi del giudizio, in particolare la mediazione. Introdotta nel testo del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 dall’articolo 39, comma 9, del decreto legge 6 luglio 2011 n. 98 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011 n. 111), la mediazione tributaria è oggi disciplinata dall’articolo 17-bis del summenzionato decreto, a mente del quale “per le controversie di valore non superiore a cinquantamila euro, il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa”. La norma prevede che il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica dello stesso; entro detto termine l’ente impositore esamina i contenuti del ricorso e, se non intende accogliere il reclamo o l’eventuale proposta di mediazione articolata dal contribuente, formula d’ufficio una propria proposta “avuto riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse”.

La finalità deflattiva che aveva indotto il legislatore del 2011 a scrivere una norma di questo tenore, pur apprezzabile in punto teorico, ha però riscontrato in concreto una scarsa applicazione pratica, a causa di manifesti limiti, puntualmente evidenziati dagli operatori. Al di là del valore concernente le controversie per le quali la mediazione è condizione di procedibilità (non superiore a 50mila euro), vi è da considerare anzitutto che in materia tributaria il reclamo di cui all’articolo 17-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 segue una fase precontenziosa, nel corso della quale il contribuente ha comunque la possibilità di attivare un’interlocuzione con l’Ufficio, articolando una apposita istanza di annullamento dell’atto in autotutela (articolo 2 del decreto ministeriale 11 febbraio 1997 n. 37), ovvero avviando la procedura di accertamento per adesione (articolo 6 del decreto legislativo 19 giugno 1997 n. 218, che determina peraltro la automatica sospensione del termine di impugnazione dell’atto per la durata di novanta giorni dalla presentazione dell’istanza). Se accanto a tali osservazioni si pone poi la nota questione dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, ci si rende conto che le argomentazioni sviluppate dal contribuente nel ricorso-reclamo si risolvono molto spesso in una mera riproposizione di elementi già portati all’attenzione della parte pubblica nella fase precontenziosa e valutati dall’Ufficio insufficienti ai fini di una definizione bonaria della vertenza (quantomeno nei termini prospettati dal contribuente).

L’altro grande limite dello strumento deflattivo in commento è stato sin da subito individuato nel fatto che l’iter disciplinato dalla norma de qua non prevede la figura del mediatore, quale soggetto terzo e imparziale, che possa ascoltare le ragioni delle parti ed eventualmente sintetizzare le stesse in un documento di proposta, secondo uno schema non troppo diverso da quello strutturato con il decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28, istitutivo del procedimento di mediazione e conciliazione in materia civile e commerciale. La legge 21 agosto 2022 n. 130 non affronta nessuna di queste questioni, intervenendo sulla norma in commento in maniera del tutto marginale, con la sola introduzione del comma 9-bis, ove si prevede che “in caso di rigetto del reclamo o di mancato accoglimento della proposta di mediazione formulata ai sensi del comma 5, la soccombenza di una delle parti, in accoglimento delle ragioni già espresse in sede di reclamo o mediazione, comporta, per la parte soccombente, la condanna al pagamento delle relative spese di giudizio. Tale condanna può rilevare ai fini dell’eventuale responsabilità amministrativa del funzionario che ha immotivatamente rigettato il reclamo o non accolto la proposta di mediazione”. Niente di rilevante, dicevamo, se si considera che il principio per cui le spese seguono la soccombenza, esisteva già sia nel processo civile (in proposito, articoli 91 e 92 del Codice di procedura civile) che nel processo tributario, ove l’articolo 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 espressamente prevede che “la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese del giudizio che sono liquidate con la sentenza”.

Peraltro, l’esperienza concreta dimostra come tale regola sia da sempre applicata con parsimonia dal giudice tributario, soprattutto laddove a soccombere risulti essere la parte pubblica, in virtù di un diffuso quanto ingiustificato favor per quest’ultima, che si traduce molto spesso in compensazioni delle spese di lite o in liquidazioni “simboliche” delle stesse. L’intenzione manifesta del legislatore della riforma è, ovviamente, quella di sollecitare una effettiva rivalutazione della questione da parte dell’Ufficio preposto a gestire la fase della mediazione, nel tentativo di assicurare concreta – e non solo formale – applicazione all’istituto. Un’idea che era anche nel previgente testo della norma, laddove già si prevedeva che le Agenzie fiscali (Entrate, Dogane, Monopoli) “provvedono all’esame del reclamo e della proposta di mediazione mediante apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili” (in proposito, articolo 17-bis, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546; per gli altri enti impositori tale disposizione “si applica compatibilmente con la propria struttura organizzativa”). Con la riforma si vuole valorizzare tale profilo, mediante l’espresso richiamo alla responsabilità amministrativa del funzionario che immotivatamente rigetta il reclamo o la proposta di mediazione; anche in tal caso, tuttavia, l’inciso non sembra aggiungere molto, se è vero che già nel Dossier del 6 agosto 2022, elaborato dai Servizi studi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si era evidenziata “l’opportunità di specificare se questa responsabilità amministrativa si configura come ulteriore rispetto a quella ordinariamente prevista per la mancata motivazione degli atti” (in proposito, pagina 59 del documento in menzione); precisazione che, tuttavia, manca nel testo definitivo dalla norma.

La sensazione che ci si trovi di fronte a un’occasione persa trova riscontro anche nei primi commenti di dottrina; scrive, ad esempio, Cesare Glendi: “Il Parlamento non ha evidentemente saputo emanciparsi dalla riproduzione maldestramente attivata dall’Amministrazione di ritagliare la funzione deflativa entro il vecchio armamentario della “mediazione tributaria”, ex articolo 17-bis decreto legislativo n. 546 del 1992, che costituiva un vero e proprio retaggio arcaico del contenzioso tributario di stampo amministrativo ed era per di più ridotto a inutile ingombrante doppione dell’accertamento per adesione, anziché disporre l’obbligatorietà, e non la mera facoltatività, della conciliazione nella prima fase del giudizio di primo grado, istituzionalizzandone l’esercizio attraverso l’introduzione all’interno del processo della figura del cosiddetto giudice di pace tributario, quale componente interno al Collegio del 1° grado per tutte le controversie attualmente reclamabili e magari anche alle controversie cosiddette seriali, come quelle catastali, onde allargare significativamente l’ambito delle controversie conciliabili con evidenti vantaggi per una ben organizzata deflazione in limine del contenzioso”.

Anche rispetto all’altro istituto oggetto di esame in questo lavoro, la conciliazione giudiziale, la riforma non opera stravolgimenti, limitandosi a introdurre il nuovo articolo 48-bis.1, dedicato alla proposta di conciliazione formulata dalla Corte di giustizia tributaria, che riproduce nella sostanza il modello della proposta di conciliazione del giudice di cui all’articolo 185-bis del Codice di procedura civile. L’istituto è, ancora una volta, dedicato alle controversie soggette a reclamo ai sensi dell’articolo 17-bis; per tale categoria di vertenze, la Corte di giustizia tributaria “ove possibile, può formulare alle parti una proposta conciliativa, avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”. Anche in tal caso, la proposta può essere formulata in udienza o fuori udienza e la causa può essere rinviata alla successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo.  Per una compiuta riflessione sul nuovo articolo 48-bis.1 si deve tenere anzitutto a mente che in origine, con l’introduzione della mediazione obbligatoria per le controversie di minor valore (prima non superiore a 20mila euro, ora non superiore a 50mila euro), si era esclusa la possibilità per le parti di accedere all’istituto della conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546. Vi era, quindi, una alternatività tra i due istituti, con la mediazione riservata alle controversie di minor valore e la conciliazione giudiziale a tutte le altre vertenze tributarie.

Successivamente, “a seguito delle modifiche introdotte con decreto legislativo n. 156 del 2015, la disposizione che imponeva l’alternatività tra reclamo-mediazione e conciliazione non è stata riproposta in ragione dell’esigenza di potenziare gli istituti deflativi sia nella fase anteriore al giudizio sia in pendenza di causa. Ne consegue che le controversie instaurate a seguito di rigetto dell’istanza di reclamo ovvero di mancata conclusione dell’accordo di mediazione rientrano nell’ambito di applicabilità della conciliazione, disciplinata dagli articoli 48, 48-bis e 48-ter, decreto legislativo n. 546 del 1992, come modificati dal decreto legislativo n. 156 del 2015”. Nel contributo ora citato Corasaniti riprende l’affermazione secondo cui, una volta abolita l’esclusione della conciliazione giudiziale nelle controversie soggette alla mediazione tributaria obbligatoria, “quella che ancora pomposamente, ma impropriamente, si pretende di chiamare mediazione tributaria, realisticamente si configura come nient’altro che un pressoché inutile, ma nocivo, intralcio amministrativistico al normale progredire del processo tributario”. Come si pone il nuovo articolo 48-bis.1 rispetto a quest’ultima “contestazione”? Proviamo a rispondere muovendo da una considerazione sostanziale: diversamente da quanto avviene nelle ipotesi disciplinate dagli articoli 48 e 48-bis, l’istituto di cui all’articolo 48-bis.1 prevede che a dare impulso alla fase conciliativa non siano le parti, ma la Corte di giustizia tributaria “avuto riguardo all’oggetto del giudizio e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione”. Ciò implica che il giudice tributario debba necessariamente avere contezza dell’oggetto del giudizio e delle posizioni delle parti rispetto alla questione al medesimo devoluta. In buona sostanza, il giudice che formula la proposta conciliativa deve aver esaminato gli atti di causa, quantomeno sottoponendoli a una sommaria analisi.

Se è così, allora forse sarebbe stato più opportuno prevedere che la proposta di conciliazione fosse stata articolata dalla Corte di giustizia tributaria sempre fuori e prima dell’udienza, entro un ben preciso termine (ad esempio, sei mesi dal deposito del ricorso), al fine di serrare i tempi del giudizio e incalzare le parti, nella prospettiva di realizzare un’economia processuale data anche e soprattutto dal fatto che in caso di conciliazione l’udienza si sarebbe risolta in un mero passaggio formale, per il quale si sarebbe potuto ipotizzare anche il ricorso alla modalità cartolare, già utilizzata durante la pandemia (la Corte infatti avrebbe dovuto dichiarare la semplice cessazione della materia del contendere). Per contro, così come strutturato dalla legge 21 agosto 2022 n. 130, l’istituto sembra tutt’altro che utile a favorire il raggiungimento dell’obiettivo della ragionevole durata del processo, che rischia di articolarsi in più udienze e dilatarsi nel tempo, essendo giustappunto prevista la possibilità di un rinvio a successiva udienza per il perfezionamento dell’accordo conciliativo. Ça va sans dire, viene così alterato in peius il normale progredire del processo tributario proprio con riferimento a quelle controversie di minor valore, che invece dovrebbero fluire spedite.

Riprendo, per concludere, un’ulteriore considerazione sull’inciso “questioni di facile e pronta soluzione” di cui al menzionato articolo 48-bis.1. Dice bene Antonio Perrone: “Cosa la corte di giustizia tributaria dovrà intendere con quest’ultima espressione? Sebbene, infatti, la formula sia stata tralaticiamente riportata dal rito civile a quello fiscale, essa dovrà certamente essere adattata alle particolarità di quest’ultimo e, prima fra esse, la circostanza che una delle parti è pubblica ed è portatrice delle funzione istituzionale di attuare la norma tributaria e di amministrare i tributi. Invero, le risposte a tali quesiti parrebbero a portata di mano. Facile e pronta soluzione, infatti, altro non dovrebbe significare se non che è chiaro chi abbia ragione e chi torto o che (in diritto) si tratta di una questione che ha una tale sedimentazione giurisprudenziale (magari in un costante orientamento della Corte di Cassazione) – da cui il giudice non ravvisa ragioni per discostarsi – che la soluzione della controversia non potrà che ancorarsi alla stessa, o che ancora – ma ci sembra un’ipotesi di difficile fattura – una delle parti abbia ipotizzato l’applicazione di una norma palesemente inconferente con la fattispecie o abbia dato una valutazione palesemente errata di una disposizione. Insomma, la locuzione in esame, nella sua forma letterale, indurrebbe a ritenere che la corte di giustizia tributaria abbia facoltà di formulare la proposta conciliativa quante volte risulti indubbiamente evidente, al di là di ogni dubbio, come la controversia debba essere decisa perché è chiaro dove sta la ragione e dove il torto.

A questo punto, però, l’inevitabile domanda che sorge nella mente dell’interprete è perché mai un giudice, che abbia così chiara contezza su come la controversia debba essere decisa, dovrebbe formulare una proposta conciliativa. Ma soprattutto occorre chiedersi come potrebbe quegli formulare la proposta senza, di fatto, anticipare la sua decisione, così compromettendo quell’imparzialità che non è solo principio di civiltà giuridica ma è anche canone di rilevanza costituzionale (articolo 111 della Costituzione). Pertanto, se si dovesse attribuire all’inciso facile e pronta soluzione il significato letterale che ha tale espressione, non solo si porrebbe un’evidente questione di legittimità costituzionale della norma, ma si dovrebbe ammettere che il novello istituto della conciliazione del giudice è stato introdotto nel rito fiscale con il solo scopo di scoraggiare liti temerarie, in cui il ricorrente (recte: il suo difensore) è conscio della scarsa probabilità di successo, ma impugna per prender tempo. Un istituto che opererebbe quindi a senso unico e di cui, a mio sommesso avviso, non si sentiva davvero il bisogno”.

L’assunto di Perrone sembra in effetti pertinente, ed è innegabile che la nozione di questione di facile e pronta soluzione stride con quell’aliquid incertum che di solito induce le parti a conciliare la lite, così evitando il rischio di trovarsi a soccombere in sentenza. Se si considera poi la sufficiente speditezza del processo tributario e – soprattutto – il fatto che, anche in ragione della già richiamata indisponibilità dell’obbligazione tributaria, dal tavolo conciliativo resta fuori ogni valutazione inerente alla solvibilità del contribuente e alle eventuali problematiche legate alla riscossione forzosa dell’imposta su cui si controverte, non si vede proprio quale possa essere la ragione per cui le parti, ricevendo la proposta della Corte di giustizia tributaria in sede d’udienza, debbano conciliare una lite ormai giunta alla soglia della decisione.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 14 novembre 2022 alle ore 10:49