La messa alla prova dello stato di diritto

In una società in cui la giustizia viene mortificata in modo reiterato da una legislazione protesa a eliminare progressivamente la certezza della pena, non si potrà arginare, in alcun modo, la dilagante incertezza del diritto. La filosofia del nostro diritto, partendo dall’apparente nobile scopo di recuperare nella società civile chi viene giudicato colpevole di illeciti penali (secondo quanto stabilisce il comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) dimostra sempre di più quanto la sua priorità sia in realtà quella di rovesciare i parametri del buonsenso e della garanzia giuridica, al punto da diventare indifferente nei confronti del soggetto passivo del reato e preoccupandosi di trovare per il colpevole dell’illecito penale qualsiasi attenuante e causa che possa ridurre o addirittura estinguere il reato commesso o male che vada la pena che dovrebbe scontare.

Il cittadino italiano più che dal delinquente o da chi esercita una condotta penalmente perseguibile, oramai deve difendersi da chi in realtà dovrebbe garantire la sua incolumità e l’ordine sociale e la certezza del diritto, ossia lo Stato. Dal momento che il diritto penale è una disciplina appartenente al diritto pubblico e quindi di matrice statuale (proprio affinché la giustizia non venga fatta da sé), il maggiore responsabile di questa “indulgenza” giudiziaria e di questa deriva anomica è proprio lo Stato.

A conferma di quanto finora esposto, cito la recente sentenza della Corte costituzionale, alquanto surreale, la quale ha censurato un precedente provvedimento del Gup del Tribunale ordinario di Bologna, che riferendosi all’articolo 3 della Costituzione ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 168-bis, comma 4 del Codice penale, il quale prevede la sospensione del procedimento penale in riferimento a determinati reati, nello specifico prevede che l’imputato possa chiedere la sospensione del processo con “la messa alla prova”, ma solo per quei reati puniti con pena pecuniaria, oppure con la reclusione fino a 4 anni o per quei reati previsti nell’articolo 550, comma 2 del Codice di procedura penale, negli articoli del Codice penale: 336, 337, 343 comma 2, 349 comma 2, 588 comma 2, 625 e 648.

“La messa alla prova” qualora andasse a buon fine è causa di estinzione del reato nei confronti del colpevole, ma l’aspetto più rilevante per la questione succitata è che al comma 4, l’articolo 168-bis del Codice penale stabilisce che tale provvedimento non possa essere concesso più di una volta. Proprio su questo comma il Gup del Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato l’illegittimità costituzionale nei confronti della richiesta di messa alla prova da parte del difensore dell’imputato, arrestato per cessione di sostanze stupefacenti ex articolo 73, comma 5 (Decreto del presidente della Repubblica n.309/190), in quanto egli aveva già ottenuto la messa alla prova per un reato precedente e quindi, secondo quanto ha sollevato il Gup non può fruire ulteriormente di tale provvedimento in riferimento ad altri processi per cui è stato rinviato in giudizio per il reato di cessione di stupefacenti (compiuti in periodi più o meno contestuali all’arresto), anche se in esecuzione del medesimo disegno criminoso e dunque rientranti nella fattispecie giuridica di un unico reato, definito “reato continuato”.

Indi, l’imputato in questione aveva chiesto la messa alla prova, ma l’istanza non era stata accolta dal Gup, proprio a causa dell’applicazione del succitato articolo 168-bis, comma 4 del Codice penale. La Corte costituzionale ha censurato la decisone del Gup, perché considerata irragionevole, in quanto causa di disparità di trattamento tra l’imputato che commette tutti i reati in un medesimo disegno criminoso (il succitato “reato continuato”), il quale ha la possibilità ex lege di accedere al beneficio della sospensione del procedimento con messa alla prova e l’imputato per il quale l’azione penale è stata attivata inizialmente per alcuni reati e solamente dopo è stata esercitata anche in riferimento ad altri reati, ma comunque collegati ai primi da uno stesso disegno criminoso, ossia da quella “condicio sine qua non” per prefigurare il “reato continuato”, una decisione, quella del Gup, che ha negato all’imputato la possibilità di ottenere una seconda volta il beneficio della messa alla prova.

Allo scopo di avallare la sua decisione, la Corte si è ricollegata alla stessa giurisprudenza costituzionale, la quale ha progressivamente eliminato qualsiasi preclusione inerente al caso in esame. Per quanto possa comprendere che tale tendenza giurisprudenziale della Corte costituzionale sia legittimata da una interpretazione molto elastica del comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione (ossia che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato), non è accettabile che uno Stato di diritto degeneri verso tale deriva non garantista per il soggetto passivo del reato e quindi per tutta la collettività, non è giusto che la legislazione sia diventata un mero strumento sofistico a disposizione del difensore del reo e di conseguenza a favore del colpevole, al punto da compromettere la certezza della pena, perché ammesso e non concesso che ex lege sia possibile considerare il reato di cessione di stupefacenti non tanto grave da permettere a chi lo commette di accedere alla messa alla prova e che la carenza di strutture carcerarie inducano lo Stato ad escogitare provvedimenti alternativi pur di non riempire le sovraffollate celle (anche e soprattutto per non incorrere in sanzioni irrogate dall’Unione europea, da cui è stata diverse volte ripresa al riguardo), nascondendosi dietro il pretesto di applicare il principio costituzionale della rieducazione sociale del condannato, questa filosofia giuridica non farà altro che rendere ancora maggiormente inefficiente la giustizia italiana, a vantaggio di un’anomia esponenziale, che indurrà progressivamente il cittadino a farsi giustizia da solo, trasformando lo stato di diritto in un pericoloso “far west”.

“Ubi societas ibi ius”

Aggiornato il 25 luglio 2022 alle ore 11:24