Ieri la Camera ha approvato in prima lettura la riforma dell’ordinamento giudiziario. Dopo l’intervento della dottoressa Ilaria Perinu, ecco quello del dottor Francesco Mario Agnoli, già presidente di sezione alla Corte di appello di Bologna e componente del Csm, che espone le ragioni per le quali i rimedi prospettati rischiano di complicare la soluzione dei problemi che puntano ad affrontare.
Dei problemi posti dalla lentezza della giustizia si parla da decenni, e non sono mancati i tentativi, tutti sostanzialmente falliti proprio sul punto essenziale dell’accelerazione (in particolare quelli riguardanti il settore civile), di risolverlo sul piano tecnico attraverso modifiche dei rispettivi codici di procedura. In questo alveo “tecnico-procedurale” si collocano anche le leggi del 2021: la legge delega n. 134 del 27/9/2021 (processo penale, su cui su questo sito) e la legge delega n. 206 del 26/11/2021 (processo civile). La loro efficacia ai fini voluti non è ancora valutabile, dal momento che, pur se alcune disposizioni sono di immediata attuazione, si tratta di leggi che richiedono decreti attuativi da parte del governo e prevedono forme di regimi transitori, con conseguenti tempi non brevissimi per valutarne in concreto l’efficacia. Resta il fatto che questa volta non sarebbe ammissibile un nuovo fallimento, perché il dichiarato obiettivo degli appena citati interventi legislativi “rendere più rapidi ed efficienti i processi rientra fra le misure contenute nel Pnrr”, ne evidenzia la natura di condizione per usufruire dei previsti benefici economici.
Per quanto riguarda il settore penale effetti positivi dovrebbero comunque aversi dalla delega al governo di provvedere all’introduzione di una nozione e di una disciplina organiche della giustizia riparativa. Non per caso proprio a questa parte della riforma ha fatto riferimento il Papa quando, nel corso dell’udienza il giorno 8 aprile ai componenti del Csm, ha detto, con espresso richiamo alla Dottrina sociale della Chiesa e all’Enciclica “Fratelli tutti”: “la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello”.
Maggiori perplessità suscita fin d’ora l’altra novità: quella che collega l’accelerazione dei processi e l’adempimento delle condizioni richieste dal Pnrr in tema di giustizia alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Da quando l’Italia si è data forma repubblicana non sono stati pochi gli interventi legislativi finalizzati all’adeguamento costituzionale di un impianto rimasto a lungo (in parte ancora oggi) quello del Regio Decreto n. 12 del 1941. Questa volta però la riforma, troppo radicale per alcuni, comunque insufficiente per altri (che puntano sui referendum abrogativi proposti da alcune Regioni, e sul piano politico dalla Lega e dai Radicali), intende andare più a fondo e investe lo stesso Csm, uno degli istituti più significativi della Costituzione repubblicana.
Un coinvolgimento effetto dell’affaire Palamara, che ha consentito a politica e stampa di individuare una delle cause della crisi, forse la prima, negli stessi magistrati, come corpus (o corporazione) e come singoli. Ovviamente si fa sempre salva la maggioranza “silenziosa” dei giudici avvezzi a “parlare solo con le sentenze”, ma, in definitiva, l’addebito è al loro carrierismo, evidentemente causa e non effetto tanto del “Sistema Palamara” quanto della degenerazione delle correnti dell’Anm. Se questo è esatto, se realmente il carrierismo è il fenomeno da combattere, è inevitabile interrogarsi sull’adeguatezza di una riforma che invece rischia di aggravarlo come, secondo Machiavelli, inevitabilmente accade con leggi pensate per “homini che mai si sono visti né mai si vedranno essere in vero”. L’ambizione, il desiderio di primeggiare, di apparire fanno parte della natura umana e se sortiscono effetti negativi è saggio ridurne le occasioni.
Scrive al proposito Luigi Ferrajoli nell’articolo "Riforme illusorie che eludono i problemi", incentrato sulla trasformazione delle correnti dell’Anm in centri di potere, pubblicato il 25 marzo dal Crs-Centro per la Riforma dello Stato: “Qualunque riforma del Csm che sia in accordo con la norma costituzionale sull’elettività della componente togata dei membri del Consiglio, chiaramente diretta a garantire la rappresentanza del pluralismo interno alla magistratura, non può risolvere nulla, dato che non può sopprimere le dinamiche e le lotte di potere inevitabilmente determinate dalla scelta dei capi degli uffici. Ma allora il problema va risolto alla radice: sopprimendo o quanto meno riducendo queste lotte di potere, ossia gli stessi poteri che formano gli oggetti e i soggetti di queste dinamiche e di questi conflitti. È insomma il problema della carriera che va risolto intervenendo sui suoi presupposti: eliminando o quanto meno riducendo le ragioni del carrierismo, le quali risiedono tutte nell’esistenza di poteri impropri all’interno dell’ordine giudiziario”.
È l’esatto contrario della riforma in corso di approvazione, che – sostiene in un suo comunicato l’Anm – “guarda al passato, crea una struttura sempre più gerarchica, accentra poteri e utilizza l’aspetto disciplinare per controllare i magistrati”. Ancora più duro il giudizio della corrente “moderata” (“di destra” per la stampa quotidiana) Magistratura indipendente: la riforma “amplia enormemente i poteri dei capi degli uffici, che diventano veri e proprio superiori gerarchici, con il potere assoluto di condizionare la carriera dei giudici che lavorano insieme a loro”, e fa passare “il messaggio che esiste una magistratura superiore e una inferiore e che per non avere problemi i magistrati dovranno appiattirsi sulle idee di chi sta più in alto”, mentre l’articolo 107 della Costituzione stabilisce l’esatto opposto e cioè che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.
Anche su questi due punti l’opinione della “destra giudiziaria” coincide con quella, da sinistra (il Crs è nato per iniziativa del vecchio Pci), di Ferrajoli: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”, dice l’articolo 107 comma 3 della nostra Costituzione, che esclude così qualunque gerarchia interna all’ordine giudiziario. Negli anni Sessanta, quando ero magistrato, la prima, importante battaglia della magistratura progressista fu contro le carriere e le gerarchie. Furono battaglie e conquiste, in nome della Costituzione, contro l’idea stessa che si possa distinguere, come allora si diceva, tra un’“alta magistratura” e una “bassa magistratura”.
(*) Tratto dal Centro Studi Livatino
Aggiornato il 27 aprile 2022 alle ore 13:00