La Shoah e l’indifferenza

Sulla Shoah si è detto e visto di tutto. E sempre si è concluso che l’importante è “non dimenticare”. Il programma tv di Alberto Angela, dedicato alla Giornata della Memoria, ha raggiunto momenti toccanti come non mai. È bravo questo Angela junior e la rabbia moderata ma profonda che traspare dalla sua smorfia ci è piaciuta, perché è la nostra. Ha esposto un racconto analitico ma senza effetti speciali, perché di speciale c’è già il contenuto.

Eppure, nonostante fossimo già ben preparati all’argomento, il groppo allo stomaco che ha suscitato ci ha spinti a cercare con la nostra mente nuove ragioni. E abbiamo pensato che quest’ansia non arriva solo dalla vista di quei treni come carri bestiame dentro cui i bambini venivano lanciati come sacchi, o dalle descrizioni del campo di sterminio e dei particolari di quello che vi accadeva. La rabbia ce la provoca l’ingiustizia, l’immane torto a monte di tutta la faccenda. Ci viene voglia di tornare a quei tempi per dire in faccia a quella gente “ma come vi permettete? Chi siete voi per violare persone che non conoscete, rubare con la forza la loro dignità, prima ancora che la loro vita?”.

Al processo di Norimberga abbiamo visto Hermann Göring (e Konstantin von Neurath, Joachim von Ribbentrop, Albert Speer) chiudere gli occhi per non vedere i filmati della loro impresa. Magari sarebbe stato meglio riservar loro il trattamento di “Arancia Meccanica”, costringendoli cioè a tenerli ben aperti. Non per semplice vendetta, ma per ribadire il concetto iniziale, quello che anche e specialmente loro non dovevano dimenticare.

Personalmente, invece di “graziarli” quasi tutti con la pena di morte, li avremmo tenuti in vita a riguardare di continuo quei filmati. D’altra parte, la stessa Liliana Segre ci ha spiazzati, rispetto alla voglia di giustizia che montava immagine dopo immagine, raccontando di non aver voluto uccidere il proprio aguzzino, quando nel giorno della liberazione aveva una pistola alla sua portata, e inoltre di aver tenuto per sé il proprio racconto tacendolo per 45 anni: “Io non sono come loro, io non uccido”. Salvo dire poco prima, nella stessa intervista, che gli italiani (riferita a quelli che si univano ai nazisti nelle persecuzioni) non sono tutti brava gente”.

Oggi sono passati 80 anni e in Europa finalmente non ci sono state più guerre (ex Jugoslavia a parte). Ma nel mondo esistono tuttora altri regimi assolutamente oppressivi, in testa Corea del Nord e Afghanistan, arrivando in questi giorni alla Russia che minaccia, in tempi di iPhone e Facebook, di iniziare una nuova guerra di invasione di tipo tradizionale. Quanta intelligenza sprecata! E la solita domanda si riaffaccia nella mente: perché? La risposta non sta nelle singole motivazioni che a turno hanno riempito i libri di storia, insegnando sciaguratamente – come negava Lucio Battisti – che quel che conta al mondo sono le offese, ma nel semplice riconoscimento di quello che è l’aspetto drammatico della natura umana, dei maschi in particolare (ma le donne stanno recuperando molto terreno anche qui): il bisogno interiore di esprimere violenza. È lì che va posta l’attenzione e fatto un lavoro senza sosta per circoscrivere quella pulsione, magari incanalandola verso imprese positive (eliminarla è impossibile, perché fa parte delle caratteristiche umane).

Gli aguzzini godono uccidendo: Kim Jong-un e i Talebani oggi sono i peggiori ma tanti, troppi altri, sono complici e vanno bloccati anch’essi, figli dei delatori vigliacchi e del pubblico che acclamava Benito Mussolini a Trieste, mentre promulgava l’avvio esecutivo delle leggi razziali. E infine dobbiamo arrivare a combattere l’indifferenza, quella che ancora la Segre indica come l’aspetto peggiore della vicenda. È forse la cosa più importante da fare: è l’indifferenza che va contrastata in ogni modo, anche e specialmente attraverso la memoria.

Aggiornato il 28 gennaio 2022 alle ore 22:52