A fine anno le norme che limitano, di fatto anche per la stampa, la diffusione di notizie sui procedimenti penali e l’invito rivolto, a livello ministeriale, ai giornalisti a maggior cautela nello svolgimento della propria attività informativa, hanno rimesso al centro dell’attenzione una professione che si muove su un difficile crinale. Giuridicamente, per il rischio che la libertà d’informazione travalichi nel reato di diffamazione; politicamente, perché il giornalista può trasformarsi da “cane da guardia della democrazia”, come l’ha definito la Corte di europea dei diritti umani (Cedu) nella sentenza “Sallusti vs Italia” del 7 marzo 2021, nel suo opposto di “pericolo per la democrazia”. In assenza di un intervento legislativo, auspicato dalla stessa Corte costituzionale, che, prima di emettere la sentenza n. 150/2021, aveva disposto con ordinanza (n. 132/2020) il rinvio di un anno in attesa di una decisione sui progetti pendenti in Parlamento, hanno tenuto il campo le numerose decisioni della Corte Edu in materia, alcune riguardanti direttamente l’Italia come Belpietro vs Italia, Sallusti vs Italia, Ricci vs Italia, Magosso-Brindani vs Italia. Giurisprudenza richiamata dai due più rilevanti interventi giurisprudenziali nazionali dell’anno 2021: Cassazione penale 17/3/2021 n. 10285 e Corte costituzionale 22/6/2021 n. 150.
La prima decisione, di conferma della condanna a pena detentiva irrogata dalla Corte di Appello di Palermo, riguarda in realtà non un giornalista, ma un avvocato, condannato per avere diffamato, attraverso manifesti murali e volantini, un professionista per l’opera presta in un procedimento giudiziario. Il ricorrente fra i motivi di gravame aveva richiamato la sentenza Sallusti vs Italia, ma la Cassazione gli ha replicato che questa concerne solo i giornalisti e non è applicabile “all’attività di un soggetto che non svolga l’attività di giornalista e non abbia quel ruolo, connaturato all’attività professionalmente svolta, di cane da guardia della democrazia, come la Corte Edu definisce l’attività giornalistica”. Trae invece origine dalla situazione di professionisti della stampa (giornalisti e direttori responsabili) imputati di diffamazione davanti ai Tribunali di Salerno e di Bari, la sentenza della Corte Costituzionale n. 150/2021, che ha sancito l’illegittimità dell’articolo 13 della legge 8/2/1948 n. 47 (Disposizioni sulla Stampa) “in combinato disposto” con l’articolo 595 Codice penale “nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a 258 euro, invece che in via alternativa”, ravvisandone l’incompatibilità con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e con l’articolo 21 della Costituzione.
Con questa decisione, che ha ritenuto infondate le ulteriori eccezioni di incostituzionalità rivolte all’articolo 595 Codice penale, in particolare alla disposizione di cui al comma 3, che prevede la pena detentiva in alternativa alla pecuniaria, la Corte ha anche, se non corretto, meglio definito i contorni delle decisioni Cedu e della Cassazione penale. Difatti, pur nel riaffermare che “la libertà di espressione – in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti – costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico”, ha ricordato che “la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona” e deve essere tutelato contro aggressioni illegittime attraverso la stampa e gli altri mezzi di pubblicità cui si riferisce l’articolo 595 comma 3 del Codice penale Di conseguenza, “nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare”, non può escludersi nei casi più gravi l’applicazione da parte del giudice, nell’esercizio del suo potere discrezionale, della sanzione detentiva, purché “circondata da cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica”.
Si tratta di casi eccezionali riconosciuti dalla stessa Corte Edu, che li individua soprattutto nei discorsi d’odio e nell’istigazione alla violenza, ma secondo la Corte Costituzionale realizzabili, ad esempio, anche da “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. L’autore di simili condotte, giornalista o no, non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia: invece la mette in pericolo, screditando mediante la menzogna l’avversario agli occhi della pubblica opinione, con prevedibili conseguenze distorsive anche in sede elettorale. Infine la Corte “corregge” la Cassazione, indicando in motivazione che, al di fuori dei casi definiti “eccezionali”, la prospettiva del carcere resterà esclusa non solo per il giornalista, ma “per chiunque altro abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione”. In realtà, più che di una correzione si tratta dell’inevitabile conseguenza della cancellazione dal nostro ordinamento della disposizione che prevedeva per questo tipo di reato il cumulo fra sanzione detentiva e pecuniaria.
È comunque significativo che sulla stessa linea si ponga la recentissima decisione della Corte Edu (Standard vs Austria del 7/12/2021), che, pur con la necessità del bilanciamento fra opposti interessi, garantisce, a tutela della libertà di stampa, cruciale per il dibattito su questioni di interesse pubblico, l’anonimato degli utenti che lasciano commenti sul sito web di un quotidiano. Prima di chiudere la Corte costituzionale coglie l’occasione per reclamare quanto già richiesto con l’ordinanza n. 132 del 2020 cioè il varo da parte del legislatore di una complessiva riforma che individui complessive strategie sanzionatorie, non necessariamente anche detentive, ma comunque in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro ogni illegittima aggressione. All’attenzione, quindi, fin da subito dell’attuale Parlamento se la legislatura giungerà alla naturale scadenza del 2023.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
Aggiornato il 07 gennaio 2022 alle ore 14:20