Crepe vistose nella noosfera tellurica

Non è difficile intuire cosa diranno gli storici fra un secolo o due circa lo stato attuale delle nostre società alle prese con la pandemia. Ben lontana dalla “noosfera tellurica” di Pierre Teilhard de Chardin, che prevedeva un’ampia integrazione delle menti umane, la nostra cultura, nel senso antropologico del termine, sta infatti dimostrando, come ho qui sottolineato più volte, quanto la “società della conoscenza” sia ben lontana dalla realtà. Al suo posto, gli storici rileveranno ciò che, del resto, è già ampiamente visibile anche oggi, ossia non tanto quella “complessità socio-culturale” di cui spesso si parla, bensì una più banale confusione generale. In questa, peraltro, a farla da padroni sono uomini, e donne, di varia provenienza professionale e culturale ma la cui mente è accomunata dalla testarda persuasione di “sapere”, cioè di avere le idee chiare su ciò che sta accadendo e potrebbe accadere, nonché di essere consapevoli, a differenza degli altri, dei “veri” pericoli che stiamo correndo, sia in fatto di sanità sia in fatto di sviluppi politici.

Al centro si colloca quella che potremmo definire la “questione scientifica” sulla quale, improvvisamente, dopo un letargo secolare, giornalisti, uomini della strada e persino filosofi si sentono autorizzati ad emettere i più sussiegosi e gravi giudizi, nonostante debbano proprio alla scienza il novanta per cento delle proprie attività quotidiane. Il tutto sulla base di una frettolosa analisi di dati che andrebbero invece studiati e presentati con molta cura. In questo bel quadro, il ruolo dei mass media si svolge con le povere armi del cosiddetto “buon senso” che porta spesso a veicolare messaggi del tutto errati, ma che il largo pubblico, mancando di un sia pur semplice alfabetismo metodologico di base, non sa cogliere, lasciando che la confusione prosegua indisturbata. Prendiamo la comunicazione serale, da parte dei tiggì, dei dati quotidiani di contagio. Nel tiggì di Stato e in altri, ho colto in numerose occasioni un commento analogo che sottolineava come, nonostante il crescente numero di prelievi, il tasso di positività non scendesse e, anzi, aumentasse. Stupore che avrebbe senso se e solo se il numero di positivi dovesse essere, chissà perché, costante. Applicato al mondo dei sondaggi politici, il ragionamento dovrebbe portare a ritenere che quanta più gente si intervista e tanto meno un certo partito, chissà per quale ragione, raccoglierà consensi.

Altrettanto costituisce una palese scorrettezza presentare un elenco delle regioni con i tassi di contagiati in valori assoluti poiché le migliaia di casi, poniamo, della Lombardia e i pochi casi del Molise inducono un’impressione sbagliata, dato che la Lombardia ha una popolazione enormemente maggiore. Le percentuali – o per centomila – darebbero invece un’informazione corretta. Purché uno le sappia leggere e scrivere. C’è poi la persistente polemica sulla contagiosità e la contagiabilità dei vaccinati. Ormai anche i sassi hanno capito che da un lato il contagio di un vaccinato è possibile ma con bassa probabilità di sviluppare la malattia e che, dall’altro, anche la probabilità che un vaccinato contagi altri non è zero, ma molto più bassa di un non vaccinato dato che il vaccino riduce drasticamente la replicazione virale e, dunque, la sua possibile emissione dalla bocca del soggetto.

Nonostante tutto questo, in tutti i talk-show, spesso amaramente divertenti per la stravaganza degli interventi, si finisce per discutere anche questo punto da parte di soggetti che vantano conoscenze che non hanno ma solo informazioni tratte da pubblicazioni in progress che solo gli specialisti sanno davvero interpretare criticamente. Il fatto stesso che gli specialisti discutano fra loro e mostrino di pensare ad ipotesi diverse, fornisce la misura del carattere tuttora esplorativo circa le caratteristiche di questo virus e delle sue varianti, ed è quanto meno dubbio che personaggi privi di qualsiasi preparazione specifica possano aiutare a risolvere i problemi che ci stanno coinvolgendo.

Fra l’altro, è proprio grazie all’ignoranza che nelle settimane scorse si è assistito ad una specie di auto-elogio corale del nostro Paese per il fatto che, da noi, i tassi di contagio erano molto più bassi che all’estero. Si trattava di una superiorità totalmente illusoria, come anche uno studente di epidemiologia avrebbe intuito e come i fatti testimoniano in barba alla sicumera di personaggi che non sanno vedere al di là del proprio naso. Al centro risiede sempre la nozione di probabilità poiché è essa che guida la pandemia e dovrebbe regolare i nostri comportamenti. A questo proposito c’è da sottolineare come molte persone, contando sul fatto che la probabilità di contagiarsi incontrando alcune persone con mascherina al bancone di un bar per cinque minuti è piuttosto bassa, vi rimangono per un’ora contando su quella probabilità non elevata. Dimenticando, anzi ignorando, che la probabilità totale di infezione, in un’ora, è assai più elevata, e potenzialmente calcolabile, di quella stabilita per una sosta di soli cinque minuti.

Infine c’è la questione politica sulla quale si agitano individui che vanno dal “martire” che accetta volentieri e di continuo interviste nelle quali esalta il proprio ruolo di oppositore della tirannia che l’ha sospeso dallo stipendio, a quello che presenta la propria pensosa preoccupazione per la democrazia e la libertà, senza riguardo per il ragionevole calcolo che vede la libertà dal virus precedere senza ombra di dubbio la libertà di muoversi, socializzare e così via. In mezzo si collocano poi i tele-virologi, ossia i virologi che i mass media ritengono i più efficaci in rapporto all’audience che si sono prefissati, mettendo a loro disposizione, in cambio, un pubblico già pronto ad acquistare libri che costoro sanno realizzare in tempi record. A loro, ma soprattutto ai più numerosi colleghi che si limitano, si fa per dire, a compiere il proprio lavoro quotidiano di ricerca in tutte le nostre università, va tutta la mia simpatia. Ma credo che, a costo di non essere più invitati, dovrebbero una buona volta parlare non nel linguaggio, troppo spesso invocato, del divulgatore o dell’imbonitore, ma esattamente nel linguaggio scientifico col quale sono abituati a lavorare. Forse una simile modalità di comunicazione, che peraltro verrebbe subito bloccata dai conduttori o dalle conduttrici – veri custodi o vestali del più banale senso comune - farebbe intuire quale e quanta sia la distanza fra la vita quotidiana e la ricerca scientifica. Ma è solo un “forse”, poiché l’attuale “società della conoscenza” ripresenterebbe subito la propria incolmabile pretesa: giudicare la scienza con il linguaggio e il “buon senso” del supermercato.

Aggiornato il 03 gennaio 2022 alle ore 12:55