Dalla panchina sotto casa vedo il mio barbiere: ometto magrino, cortese. Un cenno, si accosta, poi i saluti. Gli dico che durante il ricovero in ospedale mi è stato rubato il telefono e ho perduto i contatti della rubrica. Tornato a casa lo avrei chiamato: dovevo togliere quell’ampia massa di capelli dopo mesi e mesi di tenuta ospedaliera.
Sono venti anni che abbiamo un rapporto, diciamo, di lavoro. Sta per darmi il numero di telefono e mi accorgo di una improvvisa sosta. Mi dice che non ha portato il cellulare e non ricorda il proprio numero! Assurdo. No, ha paura di una persona che è stata malata, non rendendosi conto che sono più al sicuro e rassicurante io, pulsante di anticorpi, di quanto lo sia lui, tenerello e smantellato. Niente, ha paura.
Mi sono recato all’ospedale per degli accertamenti, vicino Roma: prato all’aperto, in campagna, alberi freschi d’ombra, una sorta di capannone lungo fatto apposta per le emergenze della malattia virale e credo anche per le vaccinazioni. Mi stupisco, anche se ormai non c’è da stupirsi che tutti, dico tutti, siano in maschera. Eppure stiamo all’aperto, con una melodiosa ventilazione, ben separati. Io ho qualche difficoltà alle gambe, devo sedermi. C’è uno straniero di pelle semiscura, gli chiedo di sostenere la sedia mentre mi abbasso, finge di non capire, dimostra di non essere schiavo dell’uomo bianco, è un comportamento frequente, non ci rendiamo conto che questa gente ha sofferto il nostro dominio e se trova l’occasione di vendicarsi, anche nelle minime vicende, lo fa.
Ma è il tremore del morbo che mi preoccupa, è concepibile che persone adulte in un luogo ampio, ventilato, arcadico-pastorale, si immascherino difendendosi dall’aria frizzante del mattino di un estivo luglio, manco fosse una miniera miasmatica o una catasta di rifiuti romaneschi!
Siedo con l’ausilio di un connazionale, sto senza mascherina. Una signora mi osserva e si discosta ulteriormente, gli altri mi occhieggiano, sono l’unico che in luogo aperto, ventosetto, godo più dell’aria che del raffrenamento dell’aspirazione. Che è accaduto? La gente ha perduto il gusto, il sapore dell’aria? Sarebbe come perdere il sapore dell’acqua fresca o il sapore della vita! Perché la vita ha il sapore dei nostri sensi. Tronca il rapporto tra sensi e realtà e sei finito.
Sono stato due mesi all’Istituto nazionale di Malattie infettive Lazzaro Spallanzani: una polmonite bilaterale, guarito. Immediatamente una seconda polmonite bilaterale. Venti giorni di coma farmacologico, credo farmacologico, poi in rianimazione, quindi in riabilitazione, successivamente due mesi all’ospedale San Giovanni Battista, zona Muratella, a Roma. Per settimane mancavo di voce, un grumo cremoso mi colmava i polmoni: quando mi intaccarono la gola uscì il diavolo, quella massa schifosa, appunto, e riebbi la parola. Le gambe invece, per la lunga sosta, si sono infiacchite e continuo a rinforzarmele.
Quando sei vicino alla Morte decidi, o qualcosa al tuo interno decide per te: vuoi vivere o ti abbandoni alla perdita di te, degli altri, del continuare a patire prelievi di sangue, medicine, risvegli notturni, difficoltà urinarie, blocchi di evacuazione, cuore, respiro, deliri sognativi che trascinano la mente oltre le Colonne d’Ercole nel mare illimitato del Nulla dove non ti raggiunge il soccorso divino e umano. Tu, solo, che ti inabissi per l’eternità!
No, tu o qualcuno in te, un te stesso incosciente a te stesso insorge, e vuole vivere, vuole aggrapparsi a ragioni di vivere. Io volevo vivere per fare del bene a chi voglio bene; io volevo vivere per salvare i miei libri. Io volevo vivere. Io ho vissuto. Io vivo.
Sono pochi coloro che sormontano una doppia polmonite. I medici scuotevano il capo e sorridevano sbalorditi. Le infermiere mi davano per deceduto e, poi mi dissero, pregavano per la mia anima. Allora? Bisogna attaccarsi a delle ragioni per vivere. Sentirle. Il pericolo non è la malattia ma perdere la volontà di vivere. Il pericolo non è il rischio di contagiarsi ma il rischio di intanarsi. Una esistenza rassicurata ma impaurita, conigliesca, è già morte. Sì, sì, ancora sì: tutela, regole, ma per vivere non per difendersi dalla vita.
Lo Stato protettore non ecceda nella protezione e non trasformi i cittadini in pavidi bambini. Il dilemma non è tra responsabili e irresponsabili, bensì tra chi indossate le tutele vuole vivere e chi vuole vivere di difese e crede che lo scopo della vita sia tutelarsi dai rischi della vita. Falso che chi si vaccina ritrova fiducia e sicurezza. Falso.
Se prosegue la mentalità del pericolo non basteranno i vaccini quotidiani e indosseremo le mascherine anche parlando al telefono. Ormai la questione è filosofico-psicologica almeno quanto medica. Tutelarsi per vivere, non vivere per tutelarsi! Tentiamo imprese degne della nostra civiltà!
Aggiornato il 16 luglio 2021 alle ore 11:44