Ho già più volte sottolineato che l’espressione società della conoscenza è solo una sorta di presa in giro sociologica. Certamente le conoscenze, al plurale, oggi abbondano per chi vuole attingere al sapere. Tuttavia, la conoscenza, intesa come processo individuale di crescita e arricchimento, non riesce in alcun modo a trasformarsi in motivazione, ossia in una forza propulsiva che permetta all’uomo di distinguere le cose importanti da quelle semplicemente divertenti o talora banali.
Molti osservatori hanno ricordato che, in Italia ma probabilmente anche altrove, eventi sportivi sentiti come decisivi dalle masse hanno talvolta contribuito a rinvigorire la coesione sociale e, di conseguenza, a favorire l’avanzamento complessivo di una società e persino dell’economia. Sarà, ed è assai malinconico che sia eventualmente così. Sta di fatto, però, che l’avvento della società della conoscenza è tutt’altra cosa rispetto alla manifestazione di orgoglio e di patriottismo che ha accompagnato la recente vicenda calcistica. Uno sport che, di per sé, può anche risultare piacevole da praticare e da seguire come altri, si è trasformato in una baldoria fatta di sentimenti fasulli, superficiali e, quel che più conta, destinati a svanire come neve al sole di fronte a ben altre imprese concorrenziali che l’Italia dovrà ben presto affrontare.
Il carico psicologico che, non certo per la prima volta, è stato attribuito dalle masse al Campionato europeo di calcio, è stato talmente forte da indurre persino la sensazione collettiva di una rinascita italiana su tutti i fronti, incluso quello di una pandemia la quale, in realtà, si felicita della sua propria vittoria in termini di occasioni di contagio, alla faccia della “conoscenza” che non c’è.
Chi ritiene che aver vinto un campionato calcistico rinforzi la coesione nazionale è solo preda di un’illusione perché la solidità sociale ed economica di un Paese non dipende da cose di questo genere e, infatti, la Gran Bretagna, sconfitta per un pallone che, invece di andare di qua è andato di là, ha ben altre prospettive davanti a sé rispetto a una Italia che urla di gioia per una notte ma è destinata a piangere ogni giorno per le angustie sociali ed economiche che si profilano al vicino orizzonte.
Ciò che, per di più, va tristemente rimarcato è l’aspetto politico, in senso lato, della questione. Mi riferisco alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla partita della finale. Era proprio necessario? L’ha deciso lui stesso o l’ha suggerito qualche esperto di comunicazione? Non ci si rende conto dell’importanza debordante che, così, si attribuisce a un mero evento sportivo finendo per legittimare la baraccata, improvvida in tempi di pandemia, da parte di milioni di cittadini?
Sarebbe inutile citare i mille eventi, legati a ciò che conta davvero, per i quali le masse non scendono in piazza con la bava alla bocca. Ne basti uno: quanti sanno o ricordano, che nel 1977 un’astronave terrestre – la Voyager della Nasa – ha portato nello spazio, trovandosi ora a 21 miliardi di chilometri dal Sole, il Golden Record, ossia più dischi contenenti messaggi arbitrari ma ragionevolmente capaci di sintetizzare la cultura e la conoscenza migliori degli abitanti della Terra, inclusa l’immagine dell’eccellente Quartetto italiano? Non risulta che la cosa sia stata commemorata nel 1987, né nel 1997, né nei decenni successivi, né da sindaci né da presidenti.
Il quesito di fondo, sociologico nel senso più serio del termine, è e rimane dunque sempre lo stesso: perché delle cose importanti davvero l’umanità, al di là della beffarda società della conoscenza, non si appassiona come per una partita di calcio? Il fatto è che la cosa era vera duemila anni fa e lo è ancora. Presumibilmente c’è dunque qualcosa di latente che permane nella natura umana e sfida ogni progresso della conoscenza. Soprattutto se persino le autorità, istituzionali o meno, la convalidano – temo – unicamente per rinsaldare la propria immagine popolare.
Aggiornato il 15 luglio 2021 alle ore 12:23