La tragedia del Mottarone è purtroppo solo l’episodio più recente di tanti altri, forse più modesti per entità se non per gravità, che sfuggono alla cronaca quotidiana, che poi però riporta dei numeri di sintesi veramente impressionanti. In queste righe vorrei riflettere sulla situazione umana, individuale e sociale, che mi sembra permeare questi eventi.
Vi è, innanzitutto, un livello superficiale, nel senso di immediatamente emergente: assenza di controlli, superficialità nella attuazione delle misure di sicurezza, pressapochismo e genericità nella valutazione delle situazioni e dei comportamenti delle persone titolari di responsabilità gestionali. La spiegazione, che corre anch’essa sulla superficie, può riassumersi nel “detto” corrente: “una mano lava l’altra” e nel comune lavacro ciascuno ricava il proprio immediato beneficio, con la speranza che “tanto non capita nulla” e, se poi capitasse, si troverà il modo per uscirne, grazie alle lungaggini e contraddizioni, cui vanno normalmente incontro gli interventi sulle conseguenze.
Vi è poi un secondo livello, spesso enunciato nelle analisi generali, ma del quale non si mettono in luce gli effetti materiali che si determinano sul comportamento delle persone. Mi riferisco alla idea del “mercato”; termine sul quale occorre fermarsi. Il “Mercato”, come sinonimo di libertà e concorrenza dei commerci e dell’attività imprenditoriale, ampliamente intesa, ha una storia antica, sorretta da teorie illustri, nessuna delle quali tuttavia prescindeva da un dato assunto come indiscutibile: il primato del Governo politico territoriale. Un solo esempio: il laissez faire che, secondo Adam Smith, doveva promuovere la Ricchezza delle Nazioni, trovava attuazione in un tempo nel quale lo Stato era “assoluto” ed “illuminato”. Trovava attuazione, cioè, entro una cornice politica territoriale indiscutibile ed insuperabile. Questo era il mondo del XVIII secolo, proseguito, con le modifiche dei tempi, fino all’affermarsi della globalizzazione mercatista, che nel XXI ne rimaneggia il nome e ne abbrutisce lo spirito.
Il “libero mercato” si trasforma in “mercatismo” e l’aggettivo libero-liberale si connota come “liberismo” e, soprattutto, la benefica concorrenza del libero mercato, attuata all’ombra del primato della politica, si è trasformata in una competizione che nei fatti la ignora, al di là di ogni considerazione formale, di maniera. È la giungla della globalizzazione, appunto, nella quale vige la legge del più forte, esattamente come accade nella giungla. Meglio, è una competizione tra forti, che, paradossalmente sono accomunati, come “insieme”, da una competizione senza confini. Comunione, che produce un potere così effettivo, da mettere nel nulla quello politico della istituzione statale. In questo scenario viene meno un altro aspetto del “libero mercato”: l’attività di impresa, intesa come fabbrica e come lavoro. Nel globo, cosa circola al di là di ogni confine? La moneta, che sembra vivere di vita propria, senza essere più, necessariamente, espressione di un soggetto politico (pensiamo alle monete virtuali o all’euro). Questo, tuttavia, è il nuovo potere, detto mercatista, rappresentato dalla effettività finanziaria, che si avvale, per la sua circolazione globale ed istantanea, della tecnologia digitale. Conseguenza: l’economia costruita sul nesso impresa-lavoro cede il posto al profitto finanziario. Alla preoccupazione per il lavoro dipendente si sostituisce l’obbiettivo del soddisfacimento degli azionisti.
La scena del XXI secolo è divenuta immateriale, indifferente alla corporeità, occupata dalla freddezza di numeri che vagano nell’etere. Mi sembra abbastanza coerente che in un mondo dove i corpi hanno ceduto il posto ai numeri, l’umanità abbia assunto, a seconda delle posizioni mercantili, un atteggiamento esistenziale, per un verso segnato da cinismo e diffidenza, dall’altro radicato nella normalità del precario e dell’effimero. L’espressione spesso utilizzata, “capitale umano”, coglie in modo appropriato il mondo egemonizzato dal potere tecnologico-finanziario che occupa la globalizzazione del web. Questa, per sommi capi, mi appare la scena del macro-sistema. Il quale produce, attraverso passaggi intermedi, sistemi, relativamente “micro”, che interessano la vita sociale e, ulteriormente, quella dei singoli individui. Il primo passaggio intermedio è stato quello recente della gestione della pandemia: dai confinamenti, alle mascherine e, da ultimo, ai vaccini. I vaccini, che fanno capo a colossi farmaceutici, propagandati come gli unici strumenti per fuoriuscire dal confinamento pandemico.
Ma andiamo per ordine, facendo attenzione esclusivamente a dati di fatto e richiamando su di essi una riflessione razionale. Il primo passo è stato quello di istituire un nesso tra confinamento e sofferenza delle strutture sanitarie, dai pronto soccorso alle terapie intensive. Nesso costruito con una propaganda mediatica fatta di numeri tragici che dovevano giustificare le norme emergenziali (di dubbia costituzionalità) di cui il sistema di Governo si è nutrito per oltre un anno. Ho fatto riferimento alla funzionalità governativa della propaganda mediatica, perché la medesima non ha mai diffuso adeguata informazione su terapie farmacologiche di contrasto al virus che si potevano seguire come primo ed immediato intervento, che pure erano state suggerite da sanitari assolutamente affidabili scientificamente, come il primario dell’istituto Mario Negri di Milano. Medici, cui è stato dato pochissimo spazio, se non nullo, nelle varie trasmissioni che quotidianamente affollavano i salotti televisivi. La riflessione razionale e logica è che una limitata e distratta informazione farmacologica ha prodotto quella crisi del sistema sanitario necessaria a giustificare i confinamenti.
Le mascherine. Una volta assodato che il virus non vola nell’etere, ma si propaga per contatto aereo prodotto da assembramenti o eccessiva vicinanza fisica o per scarsa igiene delle mani, c’è da interrogarsi quale sia il senso logico di obbligare l’uso delle mascherine “anche all’aperto”. Non v’è dubbio, vi sono situazioni che, all’aperto, generano le condizioni di trasmissibilità del virus (gli assembramenti, per esempio), ma non è l’“aperto” in quanto tale, ma specifiche condizioni materiali che in esso possono generarsi. È ovvio che un enunciato normativo sia generale e astratto, ma data la particolare delicatezza della norma, si sarebbe dovuto esplicitamente circostanziare come seguire l’indicazione “anche all’aperto”, dove proprio quell’ “anche” è il sintomo di un voluto non detto (su questo tornerò tra poche righe).
Infine i vaccini, intorno ai quali sono rimbalzate le notizie più disparate, dai rischi di possibile mortalità, alle denunce, anche fortemente contraddittorie, di pericolosità, alle diverse e variegate età di somministrazione dei diversi prodotti. Informazioni catapultate dai media con estrema disinvoltura, senza alcuna plausibile spiegazione del perché, nel giro di pochissimi giorni, l’Ema o l’Aifa cambiassero opinione su questioni che, in teoria, avrebbero dovuto essere scientificamente cruciali. L’espressione più sconcertante è quella che ha “consigliato” la somministrazione di in certo vaccino a persone di una determinata fascia d’età. Viene da riflettere: che significa “consigliare”? O una certa età tollera un vaccino o non lo tollera. Non è una questione di opportunità, ma di sicurezza scientifica, sia pure a scopo cautelativo. Sarebbe come dire che è “consigliato” guidare essendo sobri, mentre sappiamo tutti che guidare avendo bevuto alcolici è vietato e comporta una specifica sanzione normativa. Sembra che l’idea del “consigliare” sia analoga a quella per la quale da un lato si dichiara la libertà della scelta vaccinale, ma dall’altro si istituiscono forme di sanzione, almeno socialmente discriminatorie, per chi quella scelta voglia compiere. Insomma, dal confinamento ai “consigli” è abbastanza chiara la logica seguita dal sistema governativo. Essa ha giocato su di un unico dato certo, perché davvero univoco: infondere paura nella gente, e basta.
Vengo alla conclusione di queste brevi riflessioni. La sequenza paura-confinamenti ha prodotto forme di “turbativa sociale”, che hanno colpito drammaticamente interi settori economici e la tranquillità psichica delle persone. È intorno a quest’ultima che intendo svolgere qualche considerazione. La sequenza paura-confinamento, insieme al danno economico, ha prodotto quella esasperazione psichica che ha fatto esplodere e moltiplicare varie forme di egoismo cinico; forme che, tuttavia, da tempo correvano nella società italiana, sempre più politicamente acritica ed egoisticamente individualista. A queste si è aggiunto un dato che in parte è originale, segnato, appunto, dalle mascherine e da quell’ “anche” generico, sopra ricordato. Esse, infatti, sono diventate nella prassi quotidiana un capo di abbigliamento da indossare sempre e comunque, come le scarpe. Il che è il segno di due aspetti socialmente e politicamente rilevanti.
Il primo. L’operazione tutta politica di abituare l’ambiente umano a modalità di disciplinamento dei comportamenti tale da determinare obbedienza, senza farsi domande circa le circostanze di fatto che limitano e, perciò, fondano la legittimità di applicazione della norma, che da cautelare diviene, nella applicazione massiva, restrittiva della libertà della persona.
Il secondo, come riflesso dell’obbedienza acritica. La disponibilità dell’ambiente umano al disciplinamento, senza farsi domande sulle condizioni materiali che, in generale, rendono legittime le disposizioni, dato che il fattore paura esaudisce a priori ogni risposta. Un tale atteggiamento generalizzato produce alcune conseguenze sociali di cui un paese libero dovrebbe tener conto. Primo: una frantumazione dei rapporti interpersonali, divenendo l’altro, in quanto altro e basta, un possibile portatore del virus. Secondo (e conseguenziale): una sorta di discriminazione antropologica nei confronti di coloro che intendono comportarsi in modo diversamente critico. Terzo: impedimento ed interruzione di qualsiasi attività sociale ed associativa, attività per le quali la presenza fisica è un fattore relazionale insostituibile con altre modalità. Abituare insomma alla “distanza”, o meglio alla lontananza, interpersonale. Quarto e al contrario: il coagulare tutti, disseminati proprio nella loro singolarità, nell’obbedienza al potere, come unico e sicuro garante della salute pubblica e per molti della vita. In una battuta: disseminazione relazionale e massificazione obbediente. Se si guarda alla storia, che oggi a molti è ignota o comunque priva di significato, quasi fosse un vecchio romanzo d’appendice, è sempre stato lo strumento che ha assicurato l’effettività del potere a chi lo detenesse, in modo legittimo o meno.
Ps: Credo che abbiamo tutti potuto notare la quantità di libri che vengono presentati nei salotti televisivi; libri soprattutto di politici e medici e giornalisti. Quale mole di incassi per gli editori e per i relativi diritti degli autori, grazie alla pubblicità televisiva. Penso, invece, a tutti quei giovani che debbano pagare di tasca propria i libri che scrivono per accreditarsi scientificamente, ai quali gli editori non fanno sconti, e tanto meno riconoscono “diritti”! E poi, mi chiedo: per i giornalisti scrivere un libro fa parte del loro mestiere, ma per gli altri, poiché scrivere un libro richiede ricerca, e quindi tempo, fatica e concentrazione (lo sa bene chi lo fa per mestiere accademico) dove e quando politici e medici trovano il modo di attendervi?
Aggiornato il 08 giugno 2021 alle ore 11:56