Molok e nebbie transilvane

Il carcere continua a essere un Molok tra le nebbie transilvane, qualcosa che non ci appartiene, perché a nessuno dei cittadini liberi per bene capiterà mai di averci a che fare. Eppure, anche ieri ci sono rotolati dentro industriali, professionisti, operai e nuovamente un Fabrizio Corona tragicamente obnubilato.

Stavo riflettendo su questa affermazione, rammentando come nelle classi scolastiche i più giovani non sanno nulla o quasi dell’istituzione carceraria, del concetto di pena, di cosa voglia dire privazione della libertà. Sanno quanto viene loro propinato da film, fumetti e cronache spesso riduttive. Le persone più mature, forse ne sanno qualcosa di più. Dico forse perché sono oppressi anch’essi se non dall’indifferenza, quanto meno dall’insicurezza. Da una parte la precarietà lavorativa, dall’altra la scarsità di fondi e di interventi, che spostano l’attenzione dove non c’è luce per meglio vedere.

In questo Paese dei balzelli, della semiologia a effetto, degli ermetismi che privilegiano i suoni alle verità, sarà meglio riflettere sul dentro e sul fuori che avvolge il pianeta sconosciuto. Il carcere non è un castello di parole, di ideologie vetuste, superate dal tempo e dalla storia, è ben altro di più importante. Non solamente la vendetta di rimando al male ricevuto, il perdono o la compassione che vorremmo incontrare. Non è recinto di violenza da accettare né da fare.

Il carcere è pratica di revisione, di mutamento, di un nuovo stile di vita quale unica garanzia per una maggiore tutela sociale. Dentro e fuori, un connubio che permea la libertà di ogni persona di riparare al male fatto, che impegna il consorzio sociale ad accogliere uomini finalmente migliori. Occorre analizzare il carcere per interrogarsi sullo stesso esercizio della giustizia, non basandoci esclusivamente su una violenza opposta al delitto, al diritto violato attraverso un mero male imposto, ma affidandoci all’equità di una pena giusta perché dignitosa e di una prevenzione che non umilia la necessità del reinserimento del condannato, affinché non abbia a ripetere gli stessi identici errori. Occorre parlare di carcere, di regole che vanno rispettate, del dazio eventualmente da pagare, forse assai meglio da riparare, consapevoli di quanto il nostro comportamento comunichi più di mille parole.

Occorre farlo, per riuscire a capire l’utilità e il fine specifico della pena, per scoprire cosa c’è dietro quel muro di cinta: certamente le ingiustizie perpetrate da tanti uomini in colpa, ma anche le loro esistenze, i volti, le speranze disarmanti, le disperazioni dilacerate. In un dentro inteso come discesa all’inferno della violenza, dei soprusi, dell’illegalità, “normale sindrome sociale”, fuori da una normale analisi sulla condizione del detenuto, in una altrettanto anormale ingiustizia ordinaria. Il meccanismo della manipolazione del sentire cosa è giusto o no, legittimo o illegale, è pratica di tutti i giorni per non significare l’importanza valoriale di legalità e civiltà non soltanto dell’apparato penitenziario, ma dell’intero Paese.

Occorre parlare della disumanità che avanza, della richiesta di giustizia che spesso arranca. Bisogna farlo per non farci travolgere dal dolore degli accadimenti, dalla sofferenza delle tragedie, dall’indifferenza verso la morte. Il carcere deve potersi riappropriare della sua autorevolezza, perché rispettando la dignità delle persone detenute, si alimenta il riconoscimento della vittima del reato, come di chi – attraverso questa esigenza di riconoscere la solitudine degli innocenti – scopre la possibilità di cambiare la propria esistenza.

Aggiornato il 15 marzo 2021 alle ore 12:32