La retorica dei camaleonti

“Perché abbiamo permesso che il mestiere di educatore si sia trasformato fino a eludere l’idea di dover fare crescere una generazione più forte di giovani?”, si chiede Paolo Crepet in “L’autorità perduta”. Questa domanda è retorica, e il perché è iscritto nell’ideologia di chi – anche come lui che rispetto per intelligenza e amicizia – ha con metodica determinazione distrutto scuola e famiglia in nome e per conto di quella visione del mondo sinistra che ha decretato che ogni autorità fosse oppressione, che ogni padre fosse vessatorio, che ogni educazione fosse castrante, che ogni istruzione fosse classista. Questa deriva psicologica dei giovani, con le conseguenze che arrivano all’estremo autolesionistico e auto-soppressivo, è la conseguenza di alcuni disastri nel campo educativo, sia familiare che sociale.

Dal punto di vista genitoriale, il padre ha lasciato il posto al “mammo”, secondo un neologismo di Claudio Risé, una figura sbiadita, inconsistente, pauroso nell’imporre il limite e quindi preparare alla realtà, quel “brav’uomo che conosciamo oggi, un poveraccio, addirittura un personaggio comico” come denuncia Charles Melman, uno dei più grandi psicoanalisti viventi allievo di Jacques Lacan. La madre, spesso androgina e arrampicatrice sociale, talvolta assente per narcisismo o per necessità di sussistenza, in antagonismo con l’altro genitore o complice nel delegare tempo ed educazione del figlio ai supporti digitali, esaurisce la sua funzione come accompagnatrice dell’erede allo shopping settimanale o alla sbirciatina dei compiti per casa, quando non diventa una sua connivente contro la scuola o l’insegnante ritenuto poco motivante o troppo severo.

E arriviamo all’istituzione scolastica. “L’educazione è sbiadita”, denuncia Duccio Demetrio, docente di Filosofia dell’educazione. Non più rigore, non più disciplina, non più attitudini da fare emergere, non più etica da trasmettere, ma solo praticità grossolane, insipide infarinature, passaggi di informazioni. La scuola della fatica e dell’approfondimento è diventata il dispositivo della superficialità e dell’approssimazione. Questo panorama non è forse quell’ospite inquietante di cui parla Friedrich Nietzsche? Non è forse quel nichilismo senza eredità di passato né vocazioni di futuro, ma solo un presente sterile e vuoto da riempire con il tempo virtuale di Internet, con l’acquisto incontrollato, con le sostanze sballanti e con altre tecniche offuscanti la realtà e deprimenti il destino.

Molti commentatori hanno puntato il dito sull’assenza dei rituali che conferivano senso alla maturazione individuale e al legame sociale. Verissimo! Solo che i responsabili sono loro stessi: con la mercificazione della vita, con la razionalizzazione dei rapporti interpersonali, con la liquefazione del sentimento comunitario. I giovani, per fortuna, sono sempre stati radicali: estremisti nei giudizi e nelle scelte. Una volta questa tensione era incanalata nelle esperienze politiche, negli interessi ideologici, nell’impegno sociale. Ora, mancando referenti esterni, la faccenda si è interiorizzata. Come dicono alcuni ricercatori, il vivere e morire attivamente per una idea si è consumato nell’indifferenza di vivere o morire passivamente per se stessi. Cosa fare per i giovani?, si chiedono gli esperti. Nulla. Perché i giovani non sono il problema, ma il sintomo, e per affrontarlo nessuno dei tromboni delle soluzioni facili è disponibile all’esame di coscienza e a cambiare rotta. Affrontiamo la questione in una visione sistemica, e vedremo chi ha il coraggio di riformare il sistema che fino ad adesso lo ha ampiamente gratificato.

(*) Tratto da Almaghrebiya.it

Aggiornato il 03 febbraio 2021 alle ore 11:07