
“Massimo Bordin è stato un amico sincero quanto riservato. L’ho conosciuto vent’anni orsono a Roma a un convegno di cronaca giudiziaria quando lui era già una leggenda e io un semplice freelance del settore sicurezza e intelligence”.
Massimo Martini, un suo caro amico, ricorda così a un anno esatto di distanza dalla sua morte l’ex voce mattutina di Radio Radicale. “E da allora il rapporto non si è mai interrotto e oggi sono contento di ricordarlo con un affetto che non è mai venuto meno, così come mai è scemato in questo anno il dolore e il rimpianto per una voce libera”.
Non era facile essere amici di Bordin, specie per gente del suo ambiente giornalistico.
Sì, non era facile. Doveva scoprire qualcosa di profondamente sincero e onesto intellettualmente in te perché si incuriosisse e poi si sciogliesse. Manteneva comunque riservata la propria vita personale. Tranne il lato della tifoseria calcistica. Era un romanista sfegatato e per questo, solo per questo, per un certo periodo mi mise il broncio…
Quando?
Dopo un Fiorentina-Roma di Coppa Italia finita sette a uno che io, toscano e fiorentino, gli feci pesare un po’ troppo. Se la legò al dito. Ma per il resto – per la vita vera e professionale – era un uomo libero che non portava rancori e che per mantenere la propria indipendenza rinunciò anche a notevoli offerte per la propria carriera.
Cioè?
Lui diceva che amava restare a Radio Radicale con i propri ragazzi e io so che per amore di indipendenza disse no a almeno tre offerte di grandissimi quotidiani nazionali che lo volevano come direttore. E, si badi bene, che lui non era solo un grande cronista e una memoria computerizzata da 10 terabyte sulla giudiziaria, ma anche un grande organizzatore. Era uno di quei rari casi di giornalista e direttore allo stesso tempo, figure che quasi mai coesistono.
Perché rifiutò?
Preferiva la libertà e l’indipendenza alla carriera. Il contrario di quel che fanno la maggior parte degli operatori del settore per cui il servilismo è diventata la prima dote professionale.
Cosa ricordi di più oggi a un anno dalla sua scomparsa?
Ricordo quello che mi manca. Le telefonate notturne interminabili con cui si commentavano le sentenze dei più grandi processi italiani, da Tangentopoli a quelle sulle stragi di mafia. Da ultimo il processo-trattativa e quello su “Mafia Capitale” in cui, come è noto, lui non condivideva affatto i postulati della pubblica accusa. Ma lui gli atti e le sentenze se li leggeva tutti, spesso di notte, fino all’ultima riga. Non amava quei giornalisti presenzialisti, presuntuosi, prepotenti e pressappochisti – e quasi sempre giustizialisti – che spesso fanno gaffes indimenticabili perché a malapena sanno di cosa stanno parlando. E che attaccano l’asino dove ordina la procura di turno.
Indimenticabili anche i soprannomi che lui dava a politici e aspiranti tali…
Sì, oggi tutti ricordano l’ultimo politicante etichettato – quel “gerarca minore” affibbiato a Vito Crimi – ma anche l’epiteto “il pm dei due mondi” appiccicato all’ex pm Antonio Ingroia non era male.
Il suo rapporto con Marco Pannella come era per te che lo hai conosciuto più da vicino?
Di profondo rispetto. Pur mantenendo le distanze che oggi – e anche ieri – i giornalisti fanno fatica a tenere dai politici e dagli uomini di governo. Le conversazioni della domenica indimenticabili – tanto che Radio Radicale continua, sempre la domenica, a darle in replica scegliendo le più significative nel senso dei possibili paragoni tra il presente e il passato prossimo – sembravano leali combattimenti tra due leoni messi nella stessa gabbia radiofonica. Quando Massimo decise di lasciare ad altri la direzione della Radio fu perché riteneva che il suo tempo da direttore fosse stato abbastanza ampio e che era ora di far crescere altri come Paolo Martini prima e Alessio Falconio poi. Non è vero che si dimise per dissidi con Pannella, a quanto mi risulta.
A proposito di Radio Radicale, lui come visse il proditorio attacco dei grillini e del sottosegretario all’editoria Crimi durante il primo Governo Conte?
Con preoccupazione ed amarezza. Capiva che il dna della politica italiana si era ulteriormente deformato. E che le idee di quei cosiddetti “meravigliosi ragazzi” di Beppe Grillo erano quanto di più lontano dalla democrazia liberale. E l’attacco a tutta la piccola editoria con quelle campagne di odio che culminarono contro la radio che lui aveva diretto e portato a un grande successo di ascolto - ma senza fare del giornalismo populista come va di moda oggi - per lui erano un segno dei tempi. Come le bastonature squadriste ai giornalisti negli anni Venti in Italia e in Germania.
Tra i giornalisti lui aveva un debole per Frank Cimini.
Sì, perché sapeva che per la sua onestà intellettuale e per il suo essere stato controcorrente e fuori dal coro degli adoratori di “Mani pulite” e del mitico pool di magistrati si era giocato alla lunga un posto sicuro al “Mattino” di Napoli. Gli piacevano le sue lettere al “Foglio” e, benché diviso dalle idee politiche anarco-comuniste di Frank, lo considerava ancora un cronista di vecchio stampo, non uno dei tanti Pulcinella di moda oggi.
Dopo un anno quindi Bordin ci manca più che dopo un giorno.
Sicuramente è così per tutti noi amici e conoscenti, come per i suoi familiari, per il figlio Pier Paolo e per la sua compagna Daniela. E tutti si chiedono oggi come avrebbe commentato con la sua tagliente ironia le sceneggiate di questo governo della pandemia, i comunicati delle 18 della Protezione civile, la “dittatura” dei virologi, le conferenze stampa di Giuseppe Conte, le indiscrezioni anticipate dai vari Casalino e i Dpcm a raffica così come i moduli di autocertificazione. Avrebbe sicuramente trovato una battuta tranchant per seppellire il tutto sotto una sonora risata. Ma il destino gli ha purtroppo risparmiato di doversi occupare di queste cose e di questi personaggi ridicoli.
Aggiornato il 16 aprile 2020 alle ore 15:15