La politica regina dei palinsesti

I telegiornali restano la principale fonte d’informazione, seguiti da Facebook. L’apprezzamento della tivù aumenta con l’età: dal 40 per cento dei giovani al 73 degli over 65. Gli italiani utilizzano per informarsi un mix di strumenti tradizionali e digitali. La riflessione sulla qualità dell’informazione è servita al Censis (16° rapporto sui media) a constatare che la nicchia dei fedeli della carta stampata è salita al 17,5 per cento, quasi quattro punti percentuali in più rispetto a due anni fa. I media cartacei (giornali, periodici, riviste, libri) non sono per ora destinati in Italia a perdere ulteriore peso anche se i margini sono ormai limitati.

Altro elemento osservato è che la politica nazionale è la regina dei palinsesti. Le vicende del governo, dei partiti politici rappresentano in assoluto il genere di notizie più seguito: il 42 per cento dei lettori vi pongo attenzione contro il 29,4 per cento delle notizie sportive, del 26 per cento di quelle di cronaca nera, del 18 per cento di quelle rosa. Un rilievo minore è attribuito alle notizie economiche (15,3 per cento) e alla politica estera (10,5 per cento).

Qual è allora lo stato di salute dell’editoria italiana? Non buona dal punto di vista delle copie vendute (58 milioni di copie vendute negli Usa, 26 in Germania, 72 in Giappone) e nei risultati economici dei vari gruppi editoriali. La crisi è preoccupante. Negli ultimi 5 anni il settore ha perduto 2.704 posti di lavoro e sono in corso nei tre maggiori giornali italiani (Corriere della sera, Repubblica e La Stampa) operazioni di pensionamenti, prepensionamenti e trasferimenti di sede. L’unica boccata d’ossigeno è lo stop al taglio, ma solo per 24 mesi, del Fondo per il pluralismo dell’informazione non profit e cooperativa. Per i prossimi mesi conteranno io fatti se si vuole difendere veramente il mondo dell’editoria che annovera in Italia 6.664 testate tra quotidiani e periodici, 403 emittenti radio e televisive, 5.310 uffici stampa.

I bilanci in rosso dell’Istituto di previdenza preoccupano e non è scongiurato il rischio di perdere l’autonomia dell’Inpgi che passerebbe nel calderone dell’Inps. Per trovare una soluzione tampone c’è tempo fino a giugno. I nodi derivano da un’anomalia. Gli iscritti all’Ordine dei giornalisti sono 110mila di cui 30mila professionisti e 75 mila pubblicisti-collaboratori che svolgono altre attività. Il fatto è che soltanto 15.876 professionisti attivi hanno un contratto di lavoro giornalistico, appena il 16 per cento. Situazione paradossale che i nuovi vertici dell’istituto (più o meno gli stessi del precedente Consiglio generale e Cda) vorrebbero sanare con i cosiddetti “comunicatori”. Il terreno sul quale invece si dovrebbe intervenire è quello degli uffici stampa della Pubblica amministrazione, delle Regioni, dei Comuni, delle aziende sanitarie, delle grandi imprese industriali e commerciali, nel mondo autonomo della comunicazione se legato all’informazione.

I nuovi vertici eletti nell’ultima tornata elettorale (ha prevalso Controcorrente che gestisce l’istituto dal 1994) hanno davanti molte sfide: dai 188,8 milioni di deficit in bilancio all’alto numero di giornalisti che ha disertato le urne. Solo il 27,5 per cento tra gli attivi ha votato, pari a 6.789 professionisti, meglio i 3.152 pensionati che hanno raggiunto una percentuale del 43,1 per cento. Un flop sonoro per le votazioni del Comitato di amministrazione della gestione separata. Hanno votato 5.854 pubblicisti sui 75mila iscritti all’Ordine, con una percentuale di appena il 17,4 per cento.

Aggiornato il 27 febbraio 2020 alle ore 12:40