La sfiducia nella democrazia

Negli ultimi trent’anni la fiducia dei cittadini nei sistemi democratici è divenuta uno dei temi centrali del dibattito politico internazionale. La discussione pubblica è spesso attraversata dall’idea che la democrazia sia in crisi, in declino o addirittura in regressione. Tuttavia, al di là delle percezioni immediate, la ricostruzione affidabile degli andamenti richiede di distinguere tra tre dimensioni fondamentali: la soddisfazione dei cittadini riguardo al funzionamento della democrazia nei loro paesi, il sostegno normativo alla democrazia come miglior forma di governo e la fiducia nelle istituzioni che ne incarnano il funzionamento quotidiano. È solo intrecciando queste tre prospettive che emerge un quadro chiaro e comprensibile delle trasformazioni avvenute negli ultimi decenni dentro le società democratiche.

La fonte oggi più completa per misurare la soddisfazione democratica nel tempo è il grande lavoro comparativo del Centre for the Future of Democracy dell’Università di Cambridge, che ha raccolto oltre 3.500 rilevazioni condotte in 77 democrazie dal 1995 al 2019. Il risultato più impressionante è la progressiva crescita della quota di cittadini che si dichiarano insoddisfatti di come la loro democrazia opera. Se a metà degli anni Novanta la percentuale di insoddisfatti si collocava attorno al 47,9 per cento, alla vigilia della pandemia essa raggiungeva il 57,5 per cento. In poco più di due decenni, dunque, l’insoddisfazione cresce di quasi dieci punti percentuali, superando la maggioranza assoluta degli abitanti delle democrazie. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle democrazie occidentali ad alto reddito, dove la quota di cittadini scontenti passa da circa un terzo a circa la metà, un mutamento che indica un cambio di umore collettivo di grande rilievo.

I dati più recenti confermano e approfondiscono la tendenza. Una rilevazione del Pew Research Center del 2019, condotta in 27 paesi democratici, mostra che la mediana degli insoddisfatti è pari al 51 per cento, contro un 45 per cento di soddisfatti. Nel 2023, in un’indagine analoga realizzata in 24 democrazie, la mediana degli insoddisfatti sale al 59 per cento, mentre i soddisfatti scendono al 40 per cento. Le ragioni della crescente sfiducia cambiano da paese a paese: in alcuni casi pesano le difficoltà economiche, in altri la percezione di corruzione politica, in altri ancora il divario tra cittadini e partiti tradizionali. Tuttavia, il quadro generale indica un problema strutturale di legittimità, più pronunciato rispetto agli anni Novanta e ai primi anni Duemila. Un’indagine Ipsos del 2025, condotta in nove paesi occidentali tra Europa e Stati Uniti, ha mostrato come la soddisfazione per lo stato della democrazia sia inferiore al cinquanta per cento quasi ovunque. Solo la Svezia raggiunge il sessantacinque per cento, mentre Francia, Croazia e Stati Uniti registrano livelli particolarmente bassi, compresi fra il diciotto e il venti per cento. La crisi economica del 2008, il declino della fiducia nei partiti tradizionali, la polarizzazione e il proliferare di informazioni distorte hanno contribuito a spostare in modo evidente l’umore democratico dei cittadini verso un atteggiamento più scettico, se non apertamente disilluso.

Diverso, ma strettamente correlato, è il tema del sostegno normativo alla democrazia, cioè della convinzione che la democrazia sia comunque preferibile a ogni altra forma di governo. Mentre la soddisfazione riguarda la performance del sistema, il sostegno normativo riguarda il suo valore. I dati più ampi provengono da World Values Survey, Latinobarómetro e Afrobarometer, integrati da analisi comparative condotte negli ultimi anni da studiosi come Christopher Claassen e Robert Mattes. La prima constatazione è che la democrazia resta largamente preferita dalla maggioranza della popolazione mondiale: circa il novanta per cento degli abitanti del pianeta vive in paesi dove la maggioranza considera la democrazia il miglior sistema politico. Tuttavia, all’interno dei paesi democratici avanzati si osserva un cambiamento significativo, con una progressiva erosione del sostegno incondizionato nei confronti della democrazia.

Negli Stati Uniti, per esempio, tra il 1995 e il 2017 la quota di cittadini che rifiuta categoricamente l’idea di un “leader forte che non debba preoccuparsi del Congresso o delle elezioni” scende dal 75 al 62 per cento. Allo stesso tempo, la percentuale di americani che nel 2006 dichiarava che la democrazia è “meglio di qualsiasi altro tipo di governo” era pari al 94 per cento; nel 2019 scende al 71 per cento. È un calo notevole, che riflette una crescente disponibilità ad accettare soluzioni politiche alternative in condizioni percepite come critiche.

Anche in Europa si registra una tendenza simile, soprattutto fra i giovani. Un’indagine condotta nel 2025 su giovani europei tra i sedici e i ventisei anni indica che solo il 57 per cento considera la democrazia la migliore forma di governo, mentre il 21 per cento accetterebbe un regime autoritario in determinate circostanze e circa il 10 per cento si dichiara indifferente al tipo di regime. Si tratta di segnali di una crescente fragilità del consenso democratico, che non implicano un rifiuto della democrazia, ma mostrano una minore resistenza culturale all’idea di leadership forti, governi tecnocratici o soluzioni istituzionali semplificate.

Va tuttavia evitato un eccesso di allarmismo: gli studi comparativi mostrano che in gran parte delle democrazie mature il sostegno di principio alla democrazia rimane alto. Ciò che cambia è la qualità di questo sostegno, che tende a essere più condizionato e meno assoluto. In molti paesi cresce la simpatia per modelli “misti”, nei quali le istituzioni democratiche rimangono, ma alcune loro funzioni vengono ridotte o delegate a organi non elettivi considerati più efficienti. Ciò vale soprattutto per la fiducia nei cosiddetti “governi di esperti”, percepiti come capaci di risolvere problemi tecnici evitando i conflitti parlamentari. La letteratura accademica mostra che il sostegno normativo alla democrazia oscilla in cicli, spesso legati alla performance percepita dei governi: quando l’economia ristagna o la corruzione appare diffusa, l’adesione piena può diminuire, senza tuttavia invertirsi definitivamente.

La terza dimensione, forse la più delicata, riguarda la fiducia nelle istituzioni democratiche. I dati raccolti da decenni dall’Edelman Trust Barometer, da Gallup e da Pew Research Center mostrano una tendenza abbastanza chiara: il livello di fiducia nei governi, nei parlamenti, nei partiti politici e nei media è generalmente basso e spesso in declino. In molte democrazie occidentali, solo delle minoranze dichiarano fiducia nel proprio governo, mentre la fiducia nei partiti politici è in molti casi fra le più basse in assoluto. Le rilevazioni dell’Edelman Barometer dal 2001 al 2022 mostrano come nelle democrazie avanzate la fiducia complessiva nelle istituzioni oscilli tra il 40 e il 60per cento, senza crescite significative e con un deterioramento marcato in alcuni anni critici. Il rapporto 2025 sottolinea inoltre un fenomeno particolarmente preoccupante: la crescente convinzione, espressa da una larga minoranza dei cittadini, che leader politici, mediatici ed economici “ingannino deliberatamente” il pubblico. È un giudizio di una sfiducia radicale che incide fortemente sulle dinamiche democratiche e sulla possibilità di costruire consenso attorno a decisioni collettive.

Il quadro delineato da Pew Research center nel 2023 è ancora più esplicito: in 24 democrazie analizzate, non solo la maggioranza è insoddisfatta del funzionamento democratico, ma la fiducia in partiti, leader e opposizioni è estremamente bassa: su 87 partiti valutati dagli intervistati, solo 21 ricevono pareri favorevoli da almeno la metà della popolazione. L’insoddisfazione non si limita dunque all’astratto funzionamento della democrazia, ma si traduce in un giudizio severo sulle élite politiche. Parallelamente, gli indicatori “oggettivi” della qualità istituzionale, come quelli elaborati da V-Dem, mostrano che dal 2005 in poi molte democrazie presentano un leggero arretramento in aree come libertà civili, indipendenza della magistratura e pluralismo informativo, un fenomeno spesso definito “recessione democratica”. Ciò contribuisce ulteriormente alla sfiducia percepita dai cittadini, che non osservano soltanto inefficienza o corruzione, ma anche un indebolimento dei contrappesi istituzionali che dovrebbero assicurare il corretto funzionamento del sistema.

Considerate nel loro complesso, le tre dimensioni mostrano un’immagine della democrazia complessa e sfaccettata. Da un lato, il sostegno di principio alla democrazia rimane abbastanza elevato; dall’altro, la soddisfazione per il suo funzionamento e la fiducia nelle sue istituzioni mostrano un deterioramento significativo. È come se la democrazia, pur rimanendo il modello politico più desiderabile e legittimo, avesse perso credibilità nella sua capacità di rispondere ai problemi concreti. L’espansione delle disuguaglianze economiche, la percezione di un certo immobilismo politico, la diffusione globale dei social media e, attraverso di essi, l’azione della propaganda dei nemici della democrazia, unitamente al conclamato successo economico e politico di regimi totalitari come quello cinese hanno probabilmente contribuito a incrinare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche dei loro paesi, fiducia dalla quale non può prescindere qualsiasi ordine democratico stabile e destinato a durare.

Tuttavia, sebbene alcuni segnali siano effettivamente inquietanti, la democrazia contemporanea forse non sta morendo, ma si sta solo mettendo in discussione: i cittadini non ne rifiutano i valori, ma ne contestano l’efficacia e ne rivendicano la coerenza. La richiesta implicita che emerge dai dati è chiara: nuove forme di rappresentanza, maggiore trasparenza, maggiore partecipazione e una capacità decisionale più rapida e incisiva. La sfiducia crescente non è soltanto un segnale di crisi; è anche un potente indicatore della necessità di ripensare il funzionamento delle democrazie per porle in condizione di far fronte agli attacchi che stanno subendo negli ultimi anni da parte di regimi totalitari sempre più pericolosi sotto il profilo economico, politico e militare, attacchi che vengono portati avanti con guerre ibride e convenzionali e soprattutto, da parte della Russia, anche attraverso un’ormai esplicita minaccia nucleare.

Il conflitto in corso in Ucraina costituisce infatti non solo una severa minaccia per la sopravvivenza della libertà e dell’indipendenza politica di quel paese, ma anche un pericolo molto serio per l’Europa, per la sua futura unità e le sue istituzioni democratiche. In questo scenario, la crescente disaffezione dei cittadini occidentali per le democrazie costituisce l’humus ideale per la guerra ibrida condotta dai loro nemici, che ormai da tempo, e con sempre più ingenti investimenti, le minacciano concretamente dall’esterno mentre tentano di destabilizzarle dall’interno.  

Oltre a rafforzare le misure di sicurezza che si rendono necessarie per far fronte a questa guerra particolare – rispetto alla quale non si sono peraltro fatte registrare fino ad oggi reazioni o controffensive degne di nota – le democrazie dovrebbero quindi rafforzare nelle rispettive opinioni pubbliche la consapevolezza del significato e delle implicazioni dei loro valori fondanti e la fiducia nei comuni ideali su cui hanno costruito la loro storia, arrivando a progettare un nuovo sistema difensivo di alleanze strategiche e militari a livello mondiale, un sistema che ormai potrà essere imperniato solo su un’Europa politicamente unita, federale e consapevole del ruolo che, volente o nolente, è di nuovo costretta ad assumere nella storia se non vuole veder scomparire la civiltà a cui ha dato vita.

Aggiornato il 09 dicembre 2025 alle ore 13:13