Amianto: sentenza storica del Tribunale di Roma

Ogni volta che entro nel merito della mia attività di avvocato, spiegando che in particolare mi occupo della tutela giuridica e giudiziaria delle vittime di amianto, allo scopo di far ottenere loro il risarcimento patrimoniale e non patrimoniale, iure proprio e iure hereditario, per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del datore di lavoro, i miei interlocutori rimangono interdetti, come se non avessero contezza del serio e diffuso problema che costituisce l’amianto per il nostro territorio nazionale.

Questo anche e soprattutto a causa di un’estesa indifferenza dei media e di una dilagante disinformazione sul tema in oggetto. Difatti, in Italia, con una stima a ribasso, sono presenti circa 40 milioni di tonnellate di amianto, distribuiti su tutto il territorio, nelle scuole, negli ospedali, nelle caserme e financo negli stessi Tribunali, insomma, in diversi edifici pubblici e privati.

L’amianto rappresenta l’elemento più democratico del nostro Paese, in quanto è presente in ogni edificio, a prescindere dalla classe sociale cui ciascuno appartiene, perché chiunque può rischiare di ammalarsi e morire inalando le infinitesimali particelle che compongo l’amianto, le quali si disperdono nell’aria, anche a distanza di chilometri.

Il fatto più increscioso e preoccupante è che l’unico modo per contrastare questo elemento letale è la bonifica, che ahimè, però, porta con sé eccessivi costi, che qualsiasi Governo ha sempre evitato di affrontare (perché l’attività politica, o per meglio dire politicante, tende a pianificare, per motivi elettorali, a breve termine e mai a medio-lungo termine), arrivando alla surreale e imperdonabile indifferenza nel non distrarre anche una minima parte dei fondi del Pnrr, acronimo di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, (circa 56 miliardi di euro, di cui non si conosce il tasso di interesse) per iniziare a realizzarla.

Rebus sic stantibus, se non è possibile prevenire il problema amianto con la bonifica, almeno si riconoscano i danni che esso genera, si riconosca la violazione di quel diritto costituzionale che, oltre a essere fondamentale, è l’unico considerato dalla nostra Costituzione inconfutabilmente inviolabile, ossia il diritto alla salute (ex articolo 32 della Costituzione).

Tra le tante sentenze passate in giudicato che hanno riconosciuto i diritti violati dei lavoratori esposti all’amianto, mancava una sentenza che accertasse tutto ciò anche per i dipendenti e gli ex dipendenti della Videocolor. Una sentenza ormai passata in giudicato del Tribunale di Roma che sta contribuendo, insieme a tante altre, a far tremare le certezze costruite negli anni attorno alla gestione dei rischi da amianto negli impianti industriali italiani.

La succitata decisione (sfavorevole alla resistente Inail), che è destinata ad assumere un peso rilevante sul piano giuridico e sociale, ha riconosciuto in via definitiva il nesso professionale tra l’attività lavorativa svolta da un ex dipendente dello stabilimento Videocolor di Anagni e la patologia asbesto-correlata che lo ha colpito, certificando inoltre un danno biologico permanente.

Un verdetto che non rappresenta solo la conclusione di un percorso processuale individuale, ma un passaggio spartiacque per centinaia di altri lavoratori che per anni hanno condiviso le stesse condizioni operative all’interno dell’area industriale ciociara. Secondo quanto emerge dagli atti, l’autorità giudiziaria ha accertato un’esposizione qualificata alle fibre di amianto protrattasi dal 1990 al 2006, un arco temporale di sedici anni in cui migliaia di operai hanno prestato servizio in reparti e mansioni oggi considerati ad alto rischio.

Un quadro che, col senno di poi, assume contorni particolarmente gravi se si considera che, nonostante la messa al bando dell’amianto in Italia risalga al 1992, numerosi siti produttivi hanno continuato a risultare contaminati, lasciando irrisolti problemi strutturali che hanno inciso a loro volta in maniera silenziosa ma devastante sulla salute del personale.

L’esito del giudizio del foro romano ha portato al rilascio del certificato ufficiale di esposizione, documento che consente l’accesso alla maggiorazione contributiva pari a otto anni utili ai fini pensionistici e apre la strada al prepensionamento immediato del lavoratore. Un risultato che va ben oltre il ristoro morale, perché in sostanza significa, concretamente, riconoscimento giuridico, tutela previdenziale e possibilità di riscattare anni di rischi taciuti, sottovalutati o semplicemente ignorati.

Quindi, ciò che rende la pronuncia particolarmente rilevante è la sua evidente portata collettiva e in assenza di quell’accertamento, molti ex dipendenti dello stabilimento, rimasti senza lavoro dopo la progressiva dismissione delle attività produttive, sarebbero rimasti privi di ogni forma di riconoscimento.

Oggi, invece, si apre un varco che potrebbe tradursi in un’ondata di ricorsi, in quanto questa sentenza fissa un precedente, un punto fermo che altri lavoratori potranno far valere in sede amministrativa e giudiziaria. Pertanto, chi ha trascorso anni nelle stesse linee produttive, respirando la stessa aria, manipolando materiali potenzialmente contaminati, potrà rivendicare una tutela che finora è mancata.

Inoltre, la decisione del tribunale mette in luce una verità scomoda, ossia che l’ex polo industriale di Anagni è stato per decenni un luogo di esposizione rilevante alle fibre killer e la mancata o ritardata bonifica di reparti e impianti ha avuto conseguenze pesanti. Altresì, il riconoscimento giudiziario, cristallizza ciò che molti lavoratori hanno sostenuto per anni, ovvero che la tutela della salute non può essere sacrificata alle esigenze produttive, né divenire un costo da abbattere nelle strategie aziendali. 

Il caso Videocolor si inserisce in un più vasto contesto nazionale in cui le bonifiche da amianto, pur avviate da tempo, procedono spesso con lentezza, lasciando irrisolti nodi complessi. In molti stabilimenti dismessi o riconvertiti, la contaminazione è stata accertata solo a distanza di anni, quando ormai le patologie legate all’esposizione avevano iniziato a manifestare i loro effetti silenziosi e irreversibili e proprio in questo scenario, ogni sentenza che riconosce responsabilità e danni assume un valore dirimente, che supera il singolo caso.

La pronuncia romana diviene così una lente attraverso cui leggere una vicenda più ampia, fatta di precarietà, mancate informazioni, protezioni insufficienti e migliaia di lavoratori che, spesso senza piena consapevolezza, hanno corso rischi enormi. L’esito del giudizio costituisce un atto di giustizia che non cancella le sofferenze, ma almeno restituisce dignità e diritti. Ora la questione cruciale riguarda il futuro: quanti altri ex dipendenti avanzeranno ricorsi? Quante certificazioni di esposizione verranno richieste? Quante storie individuali troveranno finalmente un riconoscimento formale?

Quel che appare certo è che la strada è stata tracciata, la sentenza del Tribunale di Roma non è soltanto una decisione giudiziaria, ma è anche un segnale chiaro rivolto alle istituzioni, agli enti previdenziali e alle imprese, perché i rischi legati all’amianto non possono più essere trattati come ombre del passato, né relegati a contenziosi isolati.

Al postutto, tutte le vittime di amianto rappresentano delle profonde ferite ancora aperte nel tessuto sociale e industriale italiano, che reclamano ascolto, risposte e soprattutto giustizia.

Aggiornato il 09 dicembre 2025 alle ore 13:30