
La cosiddetta scienza politica, al pari di tutte le altre scienze umane o sociali, non è certamente da mettersi sullo stesso piano della fisica o della chimica, ma, talvolta, riesce a mettere in luce verità quasi-sperimentali di notevole rilievo. È il caso degli studi, ormai pluridecennali, sulle origini e le dinamiche dei conflitti, interni e internazionali, ossia un ambito nel quale compaiono nomi di tutto rilievo che vanno da Morton Deutsch a Edward Luttwak. In questi studi, il concetto di provocazione è centrale e consiste nello spiegare come un attore, sia esso un partito o un Paese, a volte decida attacchi di varia natura, chiarezza e dimensione nei confronti di un avversario al fine di provocarne, appunto, la reazione violenta e, quindi, denunciarne l’aggressione proclamandosene vittima innocente.
In questi giorni stiamo osservando, su piani diversi, due casi tipici di questa tecnica politica. Sul piano interno si vedano le brutali scorribande degli estremisti che hanno approfittato dei cortei pro-Pal per scatenare una vera e propria guerriglia urbana. Dando per scontato che i protagonisti non avessero alcun interesse per la Palestina, sorge inevitabilmente la domanda: a cosa miravano? La spiegazione immediata, che parla di facinorosi che “amano” il caos per il caos è troppo semplice perché siamo di fronte ad un fenomeno ricorrente e, sotto il profilo ideologico, dichiaratamente di estrema sinistra o, se si preferisce, antagonista. Dunque l’obiettivo è un altro e non sfugge certamente a chi studia queste cose: si cerca lo scontro nella truce convinzione che, quando più forte è lo scontro, tanto più forte sarà la reazione. E, se la forte reazione producesse vittime, magari innocenti come sarebbe se perdesse la vita un ignaro passante, tanto più elevato sarebbe lo sdegno collettivo e il vantaggio per chi si oppone al “sistema”. Un calcolo fortunatamente, per ora, completamente sbagliato ma, si sa, essere rivoluzionari non significa necessariamente possedere l’intuito delle aquile.
Sul piano internazionale è anche il caso della triste vicenda israelo-palestinese. Nel discuterne si trascura del tutto il fatto che la strage del 7 ottobre era stata pianificata, a quanto pare, da almeno un anno. Dunque non si è trattato di un episodio avvenuto “a caldo”, come sarebbe stato nel caso di una lite collettiva all’uscita da una discoteca, bensì di un evento studiato, come si dice, a tavolino. Lo scopo era evidente: creare una trappola per il governo israeliano costringendolo a reagire in termini duri, sperando che fossero durissimi come purtroppo è poi successo. Il risultato, sulla base degli effetti di un severo intervento militare, non poteva che essere quello cui stiamo assistendo, cioè l’oblio per il 7 settembre e la condanna mondiale del governo israeliano, ma poi dell’ebraismo in quanto tale.
In definitiva, esattamente ciò che serviva ad Hamas per tentare di isolare Israele e stimolare gli utili idioti del caso i quali, fra piazzate e flottiglie, non fanno altro se non amplificare lo scandalo e la condanna a senso unico. Anche qui, i calcoli sono però stati fatti poco argutamente perché, ora, Hamas corre il rischio concreto di sparire e Israele, magari con un nuovo governo, tornerà ad essere quella che, in fondo, ancora oggi è: l’unica democrazia in un’area nella quale il popolo conta solo se non protesta.
Aggiornato il 07 ottobre 2025 alle ore 10:02