La legge è un confine, lo Stato ha il dovere di difenderlo

Il decreto Sicurezza 2025 reintroduce due verità elementari: che una casa privata non può essere occupata, e che le strade pubbliche non possono essere sequestrate

La distinzione tra proprietà privata e spazio pubblico ha rappresentato, fin dall’antichità, la base concreta di ogni civiltà giuridica. Nell’antica Roma, il domicilio era considerato prolungamento della persona: l’inviolabilità della domus era sacra al pari del corpo. Le XII Tavole stabilivano pene severe per chi vi entrasse senza consenso. Come ricordava Cicerone, “domus sua cuique est tutissimum refugium” (“la casa di ciascuno è il rifugio più sicuro”, De domo sua, 109).

Nel Medioevo comunale, l’occupazione della casa altrui costituiva lesione alla pace pubblica e veniva punita dalle magistrature civiche. A Firenze, i bandi cittadini tutelavano botteghe e abitazioni da intrusioni e usurpazioni, ben consci che senza certezza del possesso non poteva esistere ordine urbano. Con l’età moderna, autori come Grozio e Locke posero la proprietà tra i diritti fondamentali: per il secondo, è il diritto al frutto del proprio lavoro, la garanzia materiale dell’indipendenza personale e della vita pacifica. Le rivoluzioni moderne hanno fatto di casa e strada simboli della libertà: la prima come rifugio, la seconda come via aperta alla comunicazione tra uguali. Quando lo Stato rinuncia a difenderle, si disgrega la base minima della società ordinata.

Il decreto-Legge 11 aprile 2025, n. 48, conosciuto come decreto Sicurezza, da poco convertito in legge dal Parlamento, interviene per colmare un vuoto normativo che negli ultimi decenni è stato riempito unicamente da ambiguità e abusi. L’articolo 10 introduce nel Codice penale l’articolo 634-bis, che punisce con la reclusione da due a sette anni chi occupa arbitrariamente un immobile destinato a domicilio altrui, anche mediante artifizi, raggiri o cessione. Il reato si configura anche per chi coopera o trae vantaggio economico dall’occupazione. È prevista inoltre una procedura accelerata per la reintegrazione del possessore, affidata agli ufficiali di polizia giudiziaria, i quali, accertata l’arbitrarietà dell’occupazione, possono ordinare l’immediato rilascio e procedere coattivamente, previa autorizzazione del pubblico ministero, con successiva convalida da parte del giudice. È una misura che riconosce un fatto evidente: la protezione della casa è condizione della sicurezza individuale. Chi ha subito un’occupazione, per anni ha dovuto intraprendere cause lunghe e costose, rimanendo privato del proprio bene mentre l’occupante godeva di tutele giuridiche paradossali. Lo squilibrio era totale: il diritto sembrava difendere chi lo violava e abbandonare chi lo rispettava.

Come appare evidente, non è in discussione la necessità di affrontare le emergenze abitative, ma esse non giustificano l’arbitrio. Le soluzioni collettive devono poggiare sul rispetto delle regole e sull’azione pubblica legittima, non sull’esproprio mascherato. L’idea che la proprietà possa essere usurpata in nome di una presunta giustizia sociale si è rivelata disastrosa. L’insicurezza giuridica allontana investimenti, paralizza la manutenzione del patrimonio edilizio, genera diffidenza e innesca conflitti sociali. L’assenza di un confine chiaro tra legittimo e illegittimo non produce solidarietà: produce aggressività e risentimento.

Altrettanto rilevante è la previsione dell’articolo 14, che introduce il reato di blocco stradale. Si punisce chi, senza autorizzazione, interrompe o ostacola il traffico pubblico, con aggravanti nei casi organizzati. Anche in questo caso, la ratio è il ripristino di una legalità di base. In anni recenti, è diventato sempre più frequente assistere a manifestazioni che paralizzano la viabilità, spesso per finalità dimostrative. Ma la protesta non può equivalere a imposizione. La strada è di tutti: chi la occupa arbitrariamente priva gli altri del diritto di circolare, lavorare, soccorrere, muoversi. È un atto che non contesta, ma comanda. Altri ordinamenti, come quello francese e tedesco, già prevedono da tempo pene severe per chi blocca infrastrutture pubbliche. L’Italia vi si allinea tardi, ma con un provvedimento necessario.

La legge non è una concessione dello Stato, ma il patto minimo tra individui liberi e uguali. Serve a impedire che la violenza sovrasti il diritto, la prepotenza sostituisca il confronto, l’organizzazione diventi strumento di dominio. Quando tale patto viene sospeso, anche temporaneamente, si mina l’intera struttura del vivere civile, come ammoniva Ulpiano: “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi” (“La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il proprio diritto”). È stato illusorio pensare che la legge potesse essere selettiva, indulgente con chi viola per “cause giuste” e inflessibile con chi sbaglia per distrazione. Siffatta asimmetria ha prodotto l’effetto opposto a quello desiderato: ha delegittimato l’autorità, spinto alla reazione, diviso la cittadinanza tra protetti e ignorati.

Ripristinare la neutralità della norma significa rimettere al centro la dignità di chi rispetta le regole. Non si tratta di criminalizzare il dissenso o l’indigenza, bensì di distinguere tra bisogno e sopruso, tra protesta e sopraffazione. La casa è lo spazio in cui l’individuo realizza se stesso; la strada è lo spazio in cui si incontra l’altro. Nessuna società può permettere che l’una sia presa con la forza e l’altra bloccata a piacimento. Difenderle non è reazionario, è giusto.

In conclusione, il citato decreto Sicurezza non crea nuovi poteri, ma richiama lo Stato al suo compito primario: garantire l’ordine senza discriminare, proteggere chi non alza la voce, intervenire contro chi crede che la forza legittimi l’azione. Non basta scrivere leggi: serve farle rispettare. E non per autoritarismo, ma per rispetto della convivenza. Ogni volta che si abdica su questo piano, si invita all’emulazione, si giustifica l’arbitrio, si marginalizza il cittadino comune. È nell’equilibrio e nella giusta misura che la legge trova la sua legittimità. Riaffermare i limiti fondamentali non è un’operazione ideologica, ma civile.

La casa violata e la strada bloccata sono immagini di uno Stato debole, confuso, pronto a sacrificare il principio all’eccezione. Il provvedimento di cui trattasi prova a invertire detta tendenza. È un passo verso la restaurazione dell’equilibrio perduto, in cui la libertà non diventa pretesto per l’imposizione ma si traduce in cornice per il rispetto reciproco.

Vengano prima la persona e la sua dignità, poi l’urgenza. Precedano il diritto e la certezza, poi la piazza. Si affermino prima il limite e la misura, poi la rivendicazione. Solo così si preserva la forza discreta della civiltà.

Aggiornato il 06 giugno 2025 alle ore 10:28