
L’8 e 9 giugno siamo chiamati a votare quattro quesiti referendari sul lavoro (più uno sulla cittadinanza). I promotori dicono che servono a difendere i diritti dei lavoratori. In realtà rischiano di produrre l’effetto opposto. Più incertezza, meno occupazione, più burocrazia. E meno libertà per chi vuole assumere, crescere, rischiare.
Dietro il linguaggio dei “diritti” si cela l’ennesimo tentativo di riportarci a un passato che il mondo ha superato da tempo. Si invoca giustizia sociale, ma si finisce per punire chi crea lavoro. Si dice di voler proteggere i deboli, ma si finisce per irrigidire un mercato che ha bisogno di esattamente l’opposto: libertà, flessibilità, contrattazione. Non diktat giudiziari e vincoli assurdi.
Primo quesito: il ritorno del reintegro obbligatorio
Con il primo quesito si vuole abolire la parte del Jobs Act che ha sostituito il reintegro con un’indennità economica nei casi di licenziamento ingiustificato. L’idea è quella di tornare all’articolo 18 e proteggere i lavoratori dai licenziamenti selvaggi. Ma il Jobs Act non ha aumentato i licenziamenti. Anzi, secondo uno studio de il Corriere della Sera, tra il 2015 e il 2019 sono diminuiti di circa 80.000 l’anno. E soprattutto, ha portato più certezze per tutti: per chi assume e per chi lavora.
Oggi in Europa nessun grande Paese prevede il reintegro come regola. In Francia e Germania è un’eccezione. In Spagna si preferisce l’indennizzo. L’Italia, già oggi, è tra i sistemi più protettivi. Tornare al reintegro significa costringere l’impresa ad aspettare anni per sapere se un licenziamento è valido o meno. Una causa di lavoro dura in media oltre 600 giorni. Chi investe non può vivere in questo limbo.
Secondo quesito: colpire le microimprese
Il secondo quesito vuole eliminare il tetto massimo di sei mensilità che oggi tutela le microimprese in caso di licenziamento illegittimo. Quelle con meno di 15 dipendenti, per capirsi. Togliere quel limite significa aprire le porte all’arbitrio dei giudici. Ogni tribunale potrà decidere risarcimenti illimitati, senza alcun riferimento oggettivo.
Le microimprese vivono già in un equilibrio fragile, schiacciate da tasse, adempimenti, costi fissi. Invece di aiutarle, le si mette in condizione di non sapere mai quanto possa costare un errore, o anche solo un contenzioso.
I modelli europei più avanzati seguono una linea diversa. In Germania, l’indennità si calcola in modo trasparente: mezzo stipendio per ogni anno di lavoro. In Francia e Spagna ci sono tabelle nazionali. Nessuno lascia tutto all’improvvisazione.
Più risarcimenti non significano più diritti. Significano più paura. E più paura si traduce in meno assunzioni a tempo indeterminato. Quindi più precarietà.
Terzo quesito: la farsa della causale
Il terzo quesito propone di tornare all’obbligo di inserire una causale per i contratti a tempo determinato. Una misura già sperimentata, che non ha mai funzionato. Il risultato è noto: più contenziosi, più rigidità, meno assunzioni.
Con il Decreto Lavoro del 2023 si è allentato quel vincolo. Da allora, sono aumentate le trasformazioni in contratti stabili. Perché il tempo determinato, spesso, è la porta d’ingresso verso il tempo indeterminato. Bloccare questa porta significa lasciar fuori chi cerca lavoro.
In Europa i Paesi con il mercato del lavoro più sano – come Germania e Olanda – usano contratti flessibili. Laddove si impone la causale, come in Francia e Spagna, la disoccupazione giovanile è alta e la precarietà reale. La rigidità produce esattamente ciò che si vorrebbe evitare.
Quarto quesito: punire chi non ha colpe
Il quarto quesito propone di rendere responsabili in solido i committenti anche per gli infortuni sul lavoro causati dagli appaltatori, estendendo la responsabilità non solo in sede civile, ma anche penale. Una misura che rischia di trasformarsi in un paradosso giuridico.
Chi affida un lavoro non può controllare ogni aspetto dell’esecuzione, né può sostituirsi al datore di lavoro diretto. Eppure, con questa norma, rischierebbe di rispondere per colpe altrui. È come multare un passeggero per un incidente causato dall’autista.
Nel settore degli appalti, la sicurezza è una sfida reale. Ma non si risolve scaricando le responsabilità su chi non ha gli strumenti per intervenire. Il committente può scegliere con cura a chi affidare il lavoro, ma non può presidiare ogni cantiere, ogni turno, ogni procedura.
La sicurezza si garantisce con ispezioni serie, formazione e prevenzione. In Italia, ad esempio, i Tecnici della Prevenzione con funzioni ispettive sono circa 2.108, una cifra che evidenzia una capacità di controllo del territorio estremamente limitata.
Un referendum contro la libertà
Questi quesiti non aiutano i lavoratori. Li imprigionano. E penalizzano chi crea lavoro. L’idea di fondo è che l’impresa sia sempre colpevole, che vada punita, controllata, vincolata. Ma in un’economia libera, la libertà di licenziare – con tutele economiche, non con processi infiniti – è il prerequisito per la libertà di assumere. Chi vuole lavorare ha bisogno di un mercato aperto, trasparente, mobile. Chi vuole investire ha bisogno di regole chiare, tempi certi, margini di scelta. Chi crede nella libertà dovrebbe avere il coraggio di dirlo, anche quando sembra impopolare.
L’unica vera risposta a questi referendum è non partecipare. Astenersi è un gesto di responsabilità. È dire no a un ritorno al passato, no alla restaurazione giuridica, no all’illusione che si crei lavoro rendendo più difficile assumerlo.
In gioco non c’è solo una norma. C’è un’idea di società. E la libertà, anche stavolta, è dalla parte giusta.
Aggiornato il 06 giugno 2025 alle ore 12:13