
La Repubblica italiana, dopo settantanove anni, non ha ancora compiuto del tutto il suo percorso di nazionalizzazione. Quel che non è stato ancora raggiunto è il senso di una diffusa e condivisa appartenenza sostenuta, per dirla con le parole di Ernest Renan, da “comuni ricordi, dal desiderio di vivere insieme e dalla volontà di fare valere l’eredità ricevuta”.
Difficile non individuare proprio nell’assenza di “comuni ricordi” il punctum dolens della storia della Repubblica. Infatti, fin da subito ha prevalso con forza un’idea divisiva sulle modalità attraverso le quali è nato un Paese libero, democratico e repubblicano. La prova provata di tutto ciò è fornita dal fatto che ogniqualvolta ci si avvicina ad alcune date fondative (nella fattispecie quella del 2 giugno, ma non diversamente accade il 25 aprile in occasione della Festa della Liberazione) alle commemorazioni ufficiali si affiancano puntualmente polemiche intente nel veleno. Le ragioni di tale anomalia potranno essere meglio comprese, richiamando l’attenzione sul dibattito che si sviluppò in Assemblea Costituente là dove si fronteggiarono due famiglie ideologico-culturali (l’una democratico-liberale e l’altra social-comunista) riconducibili a visioni politiche e a legami internazionali a dir poco antitetiche.
In quegli anni, furono gettate le basi per la nascita di “due Italie” distinte nei ricordi, nella cultura e negli obiettivi politici. Né un fossato a tal punto profondo poté essere colmato dal retorico richiamo all’unità antifascista, peraltro già interrotta nel maggio 1947, quando il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, chiuse definitivamente l’esperienza del Cln estromettendo la sinistra dal governo. La qual cosa non fu una sorpresa per coloro che conoscevano il pensiero dello statista trentino. Egli era convinto (e non ne fece mai mistero) che “Palmiro Togliatti puntasse alla conquista di una dittatura di fatto attraverso le forme democratiche”. Si trattava di ciò che abbiamo conosciuto per decenni come la “doppiezza comunista”. A tal proposito, lo storico Roberto Chiarini in Le origini dell’Italia repubblicana scrive che “dietro il velo di un’adesione unanime al paradigma ufficiale dell’antifascismo s’intravedono due diverse declinazioni. La prima tende ad elevarlo a suprema norma etica da imporre alla futura Italia democratica, mentre la seconda lo spoglia di ogni statuto morale per ridurlo a mera risorsa politica, imprescindibile nell’emergenza della guerra, ma da ridimensionare a impegno implicito nella più generale scelta democratica se non addirittura trasformarlo in arnese invecchiato da riporre nell’armadio dei reperti storici”.
In occasione del 2 giugno c’è da sperare (ma è lecito dubitarne) che accanto alle celebrazioni ufficiali si apra finalmente una onesta riflessione su come e quanto la “doppiezza comunista” abbia contribuito a differire nel tempo l’affermazione sia di una giusta concezione della democrazia liberale che di un comune sentimento nazionale.
Renzo De Felice ricordava spesso che “non tutti gli antifascisti sono democratici”. Il che significa che un sistema democratico per essere considerato tale deve essere nel contempo sia antifascista che anticomunista. Il nodo ancora da sciogliere nell’Italia repubblicana è tutto qui.
Aggiornato il 30 maggio 2025 alle ore 10:29