
Ormai non c’è riflessione, sia per mano dell’élite colta sia per voce popolare, che non interpreti i pur gravosi problemi del nostro tempo come un segno della profonda decadenza della civiltà occidentale. Che si focalizzi l’attenzione sui problemi climatico-ambientali o ci si occupi di qualità delle classi dirigenti, per dire solo di due argomenti, la conclusione a cui si giunge è sempre la medesima: la catastrofe è dietro l’angolo. Eppure, se si riuscisse a chiudere l’audio, evitando di ricevere il frastuono della cronaca quotidiana, qualcosa di più razionale si riuscirebbe a capire rispetto ai problemi che affliggono la modernità. Basterebbe solo allargare il prisma attraverso il quale leggere gli eventi, per scoprire con le lenti della “lunga durata” che ciò che sembra una novità del Ventunesimo secolo altro non è che un’ennesima replica della storia. Sarebbe superfluo riportare le cifre con cui le analisi statistiche hanno raccontato i progressi compiuti negli ultimi 100 anni nella parte Ovest del mondo. Infatti, anche i più inveterati pessimisti non possono non riconoscere che le condizioni di vita siano migliorate senza eguali rispetto al passato, che la grande conquista della liberazione dalla fatica fisica e dalla condizione di povertà siano traguardi ormai consolidati, per non dire della vita media e della qualità di essa che non trova riscontro nella storia dell’umanità.
Nondimeno, il pessimismo continua ad essere la colonna sonora che accompagna come sottofondo ogni dibattito pubblico. La domanda è: da che cosa nasce tutto questo? Il politologo Francis Fukuyama non ha dubbi. “È stato il Novecento – ha scritto pochi anni fa – a fare precipitare nella cupezza il comune sentire degli occidentali. Due guerre mondiali e i flagelli dei totalitarismi – nazifascista e comunista – non potevano non lasciare pesanti cicatrici”. Mentre nel primo Novecento Oswald Spengler scriveva nel Tramonto dell’Occidente che le civiltà “vivono un ciclo naturale di sviluppo che va dall’alto verso il basso fino alla decadenza”. L’Europa, secondo il filosofo tedesco, si trovava nell’ultimo stadio e stava per entrare nel “tunnel dell’inverno”. Il diffuso sentimento di una caduta imminente della civiltà non riguarda solo il “Secolo breve”. Infatti, le teorie sulla decadenza affondano le radici in un passato molto più lontano del XX secolo.
Già Esiodo, quasi 800 anni prima di Cristo, divideva la storia umana in cinque distinte fasi: partiva da un’età dell’oro per approdare a un’età del ferro. Il poeta greco era convinto di vivere nell’ultima fase ovvero la peggiore. Dopodiché, l’intero ciclo sarebbe ricominciato. Le aspettative apocalittiche segnano in modo marcato la tradizione giudaico-cristiana, la vera cifra connotativa dell’Occidente. In tal senso, illuminanti sono le osservazioni dello storico Oliver Bennet, quando scrive, in Il Pessimismo culturale, che “l’idea di decadenza è parte integrante della teleologia giudaico-cristiana. Essa lascia il segno nella cultura occidentale. Il Medioevo non ha mai avanzato dubbi sull’ineluttabilità dell’Apocalisse. Successivamente, con gli adattamenti operati dall’abate Gioacchino da Fiore, l’Apocalisse fu calata nella storia. Da qui nacque quell’associazione fra distruzione apocalittica e ricostruzione politica che ritroviamo fino alla nostra epoca”.
Del resto, la stessa visione marxista di un mondo borghese corrotto e fatiscente che viene abbattuto dal proletariato in nome del comunismo altro non è che un'altra variante della concezione della storia intesa come un processo di “distruzione e rigenerazione”. Tutto ciò premesso, non si vuole in alcun modo negare l’esistenza di problemi nuovi, alcuni inquietanti, che oggi occorre affrontare. Ricordare il pessimismo del passato serve, però, per ridimensionare il pessimismo post-moderno. Essere consapevoli di tutto questo aiuta ad affrontare con metodo razionale, senza catastrofismi e falsificazioni della realtà, le gravi questioni che abbiamo davanti.
Aggiornato il 16 maggio 2025 alle ore 12:52