
Il riformatore francese Giovanni Calvino (1509-1564), profondamente imbevuto della cultura umanistica erasmiana, scelse la città di Ginevra come centro di irradiazione della sua dottrina, che presenta degli spunti di riflessione giuridica ed economica assai più saldi di quelli sviluppati da Martin Lutero.
Pur affermando la derivazione del potere da Dio, temperò l’assolutezza di questa tesi configurando il ruolo del Creatore come quello di un testimone al contratto di governo stipulato tra collettività e governante. Nel richiamato contratto, le parti si impegnavano reciprocamente al rispetto delle leggi, per cui lo Stato veniva a fondarsi sul diritto, al fine di mantenere l’ordine sociale. Alla base del diritto andava collocato quello naturale, coincidente con i divini precetti manifestati nel Decalogo tramite la rivelazione, tra i quali il più importante era quello dell’amore per Iddio e per il prossimo. Il diritto naturale, impresso nella coscienza di tutti gli uomini, era noto anche come jus gentium, dal quale derivavano alcune norme universalmente condivise, come l’inviolabilità degli ambasciatori e il principio del pacta sunt servanda. Il diritto naturale, intrinsecamente equo e quindi essenziale per l’ordinata convivenza civile, cui l’uomo era per sua indole chiamato, costituiva il presupposto primo delle leggi positive, che dovevano avere sempre un contenuto equitativo (benignitas, pietas), senza il quale sarebbero risultate delle prescrizioni barbariche. In seguito alla decadenza dell’uomo causata dal peccato originale, la norma terrena ebbe nel momento coattivo il segno qualificante della sua giuridicità.
Il Principe doveva prioritariamente osservare i precetti divini, per non essere soggetto al diritto di resistenza, che peraltro i sudditi non potevano attivare direttamente, ma solo attraverso dei magistrati intermedi tra loro ed il vertice dello Stato. Il principio generale era infatti quello dell’obbedienza del suddito all’autorità di governo che, al pari dei magistrati, operava come ministro di Dio, al quale ultimo doveva rendere conto del proprio operato.
Così come la Chiesa rappresentava Dio in materia spirituale, lo Stato ne era il rappresentante in quella temporale, nel comune compito di cooperare alla salvezza dell’uomo. Causa prima dello Stato andava considerata la bontà di Dio; causa seconda o occasionale, il peccato dell’uomo; causa finale la conservazione dell’umanità. Perciò i cristiani avevano il dovere di partecipare attivamente alla vita politica, essendo l’ordinamento statale voluto da Iddio stesso. Le Chiese riformate calviniste (in Italia i Valdesi), assai più di quelle luterane, seppero mantenersi autonome dal potere civile, verso il quale anzi esercitarono un’azione di controllo e di stimolo ad operare coerentemente con la morale cristiana. Calvino, qual che fosse in concreto la forma di governo (Principato, Regno, Impero, Repubblica), incentrò il suo interesse sull’armonia che doveva caratterizzare lo Stato nel suo insieme.
Buona era la democrazia, così come la monarchia e l’aristocrazia, che però potevano evolvere – rispettivamente – in anarchia, tirannide e oligarchia, per cui la miglior forma di governo poteva essere quella di tipo misto demo-aristocratico, in cui cioè il popolo poteva scegliere i migliori nel proprio ambito, con l’obbligo dei medesimi di render conto agli elettori del proprio operato nel rispetto della legge. Ogni cittadino doveva avere un ruolo attivo nella società, in relazione alla sua specifica attitudine, assumendosi delle responsabilità e partecipando alla libertà politica. Anche le classi disagiate dovevano essere messe in condizione di poter svolgere dei lavori adeguati alle loro forze, bandendo Calvino ogni forma di improduttività. Il noto trinomio libertà, eguaglianza, fraternità, divulgato dopo la rivoluzione francese, aveva avuto la sua prima genesi proprio in ambito calvinistico.
Tra i compiti dello Stato prefigurati dal riformatore di Ginevra, furono posti quelli di garantire l’osservanza dei Comandamenti; di assicurare la pace e l’armonia sociale; di amministrare la giustizia; di assistere i poveri, gli anziani, gli orfani, gli infermi; di costruire ospedali e scuole. A tal ultimo riguardo, va ricordato che Calvino fu il primo in Europa a postulare l’esigenza dell’istruzione elementare obbligatoria. Alla sicurezza esterna del Paese dovevano provvedere forze armate nazionali e non milizie mercenarie. Motivo centrale nella concezione etica, giuridica ed economica di Calvino, fu la promozione del lavoro, quale strumento di elevazione della dignità umana e non solo di quello agricolo, particolarmente caro al mondo luterano come a quello cattolico, ma anche e soprattutto di quello commerciale, bancario e imprenditoriale in genere.
Calvino affermò che il salario doveva essere equo e non lasciato all’arbitrio del datore di lavoro, bensì alla contrattazione delle parti che, in caso di controversie, avrebbero potuto ricorrere a degli arbitrati: in questo egli dimostrò una straordinaria modernità di pensiero. Egli imputò i disordini sociali – in questo in linea con la dottrina cattolica – all’allontanamento dalla retta via della fede. Una vistosa incongruenza peraltro è dato rilevare fra la sollecitudine evidente nel riformatore ginevrino nei riguardi delle classi meno fortunate, e la sua teoria della predestinazione, in virtù della quale il successo o l’insuccesso erano sintomatici – rispettivamente – dell’eterna gloria o della perenne dannazione nell’Aldilà. Il successo economico era pertanto ritenuto anch’esso una prova della grazia divina, con la conseguenza che i seguaci del predicatore franco-ginevrino dettero un grande impulso allo sviluppo del capitalismo moderno. In tale cornice etico-economica va collocata la difesa della proprietà privata; la liceità della ricchezza intesa non come fine, ma come mezzo da ridistribuire equamente; la liceità del prestito produttivo di interessi, purché non superiori al 6 e mezzo per cento (che era un tasso moderato ai tempi di Calvino).
Da questa seppur sommaria descrizione della dottrina calvinista, possono trarsi utili elementi di interpretazione anche per la politica – altrimenti incomprensibile – attualmente seguita da Donald Trump, il quale persegue un programma prevalentemente autarchico e protezionista, come risulta dai recenti dazi doganali e dai divieti di importazione imposti alle merci straniere, con particolare riferimento a quelle cinesi ed europee. L’espulsione di masse di immigrati, di deportazioni umilianti di persone incatenate, ripugnanti per la sensibilità di qualsiasi persona civile in genere, e per i cattolici in particolare, possono trarre una chiave di lettura dall’etica calvinista, giusta la quale il povero è il maledetto, il predestinato alla dannazione, mentre il ricco è il predestinato alla salvazione eterna.
Questo spiega, ma certamente non giustifica il comportamento in atto da parte del presidente Trump, nella cornice valoriale della nostra cultura cattolica, della nostra sensibilità, alla luce della quale vediamo negli ultimi, negli scartati, il volto stesso del Cristo sofferente.
Aggiornato il 01 aprile 2025 alle ore 12:19