Riforma del premierato

A sfogliare, seppure per sommi capi, la storia dell’Italia repubblicana non si può non imbattersi in un’idea che diventa protagonista del dibattito pubblico ogniqualvolta il sistema politico entra in crisi non riuscendo a trovare sintonia fra la sfera della “decisione” e quella della “realizzazione”. Ci riferiamo ai tentativi di dare al Paese un assetto istituzionale incentrato su una forma di “Governo decidente”. Risultato mai raggiunto, nonostante non siano mancate iniziative in tal senso a partire dalla Bicamerale guidata da Aldo Bozzi nel 1983, seguita dalla commissione presieduta da Nilde Iotti e Ciriaco De Mita nel 1992, per giungere nel 1997, a quella con a capo Massimo D’Alema. Nel Governo Berlusconi (2001-2006) fu approvato un Disegno di legge costituzionale che ampliava i poteri del capo dell’Esecutivo, ma trovò la bocciatura via referendum. Se ci fosse meno divisività nel mondo politico italiano verrebbe colta l’occasione della riforma del premierato promossa dal Governo Meloni, per riflettere sulle ragioni storiche che nel Dopoguerra favorirono nel nostro Paese la nascita di un sistema democratico sbilanciato sul versante dell’Assemblea a scapito del potere di Governo.

Infatti, a escludere che potessero nascere istituzioni forti furono in primo luogo gli anglo-americani (il tema fu al centro di molte discussioni tra le potenze vincitrici fin dall’inizio del 1944) nel timore che si potesse ripetere l’esperienza del fascismo. Una simile impostazione, comunque, fu in perfetta sintonia con le esigenze delle maggiori famiglie politiche protagoniste dell’Assemblea Costituente caratterizzate da una notevole inconciliabilità politico-ideologica oltreché da un alto tasso di reciproca sfiducia. Talché si decise di approvare un sistema di democrazia parlamentare ad “alta garanzia reciproca”. In tal modo, si stipulò una sorta di assicurazione in forza della quale venne di fatto esclusa la possibilità di formare maggioranze stabili con efficaci strutture di comando. Tutto ciò ha impedito che nel nostro Paese – come ha osservato Giuseppe Maranini in Storia del potere in Italia – “si conoscesse e si apprezzasse l’esperienza di Governi democratici forti e autorevoli”.

Ha scritto il professore Augusto Barbera (già presidente della Corte Costituzionale) che “la parte sul Governo e sui rapporti fra Governo e Parlamento è una delle meno accurate e dettagliate della Costituzione. Quasi come non si reputasse in fondo utile né tanto meno necessario vincolare a una precisa disciplina la nascita, la vita e la morte di un Esecutivo”. In tal senso, una riforma che punti all’elezione diretta del presidente del Consiglio rappresenta un primo grande segnale di adeguamento delle istituzioni a un tempo storico radicalmente diverso rispetto a quello che segnava l’Italia del Dopoguerra. Purtroppo, la sinistra continua a credere che il dare maggiori poteri al capo del Governo rappresenti un vulnus per la democrazia. Costoro gridano ogni giorno al pericolo fascista, dimenticando che i Governi deboli sono stati la causa non secondaria delle degenerazioni totalitarie del Novecento.

Aggiornato il 31 marzo 2025 alle ore 12:09