Isolare la politica dalla magistratura e salvare la politica da sé stessa

Il caso Meloni-Almasri, senza togliere legittimità al sospetto che l’operazione sia il consueto pizzino contro, l’ormai incardinata, riforma della giustizia, merita alcune precisazioni e riflessioni. Quello notificato alla premier e ai suoi colleghi non è un avviso di garanzia, come frettolosamente definito da molti commentatori, ma un atto di iscrizione nel registro degli indagati, ossia un automatismo, previsto dalla legge costituzionale che disciplina i reati ministeriali, in presenza di notizia o, come in questo caso, di denuncia di reato. E qui sia consentita una parentesi: come mai i pm, all’epoca titolari del dossier Open Arms, decisero di “escludere” da questo automatismo il premier Giuseppe Conte e gli altri ministri insieme all’unico indagato Matteo Salvini? Il prosieguo dell’iter procedurale prevede che l’atto di iscrizione, formalizzato senza che il pm abbia svolto indagini, venga trasmesso, a stretto giro, al Tribunale dei ministri (composto dai 3 magistrati sorteggiati nella sede di Corte d’appello). Ove questo organo non archivi l’indagine, esso è tenuto a inviare all’aula parlamentare di competenza (in questo caso, il Senato) la richiesta di autorizzazione a procedere. La richiesta viene sottoposta al voto, prima in Giunta per le elezioni e le immunità parlamentari e poi in Aula. È facile prevedere che, nella fattispecie, il procedimento, grazie alla solida maggioranza della coalizione, verrebbe fermato lì. Tale percorso è il risultato della stortura che si è determinata con la riforma dell’istituto delle immunità, figlia della tempesta di Mani pulite.

La, ormai relativa e, sempre più solo formale, insindacabilità degli atti politici, tradisce lo spirito di attenta separazione ed equilibrio, disegnato dai costituenti, tra la funzione giudiziaria e i poteri legislativo e esecutivo. In particolare, l’attuale costruzione normativa di quello che resta delle immunità, fragilizzata da ripetuti conflitti interorganici, è, ormai, un ircocervo giuridico che non impedisce né le incursioni della magistratura nella politica né l’abuso da parte della politica stessa, al suo interno, quando una fazione lo usi come strumento per cercare di colpire la parte avversa, su motivazioni ideologiche o di convenienza del momento. Esemplare il divergente esito delle richieste di autorizzazione a carico di Salvini, nei due analoghi casi, Diciotti e Open Arms: respinta nel primo e concessa nel secondo, a riflesso delle mutate geometrie delle alleanze. Dopo la separazione delle carriere, sarebbe opportuno riaprire il dibattito sulla abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione) che è diventato l’alibi per nascondere i sempre più frequenti tentativi di incursione dei togati nell’agone politico. E, per quanto riguarda i reati ministeriali (articolo 96 della Costituzione), restaurare la disposizione originaria, disegnata, con saggezza, dai costituenti, che capo del Governo e ministri rispondano, per gli atti commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, non già al magistrato ordinario ma al Parlamento. Senza mai dimenticare che il giudice ultimo delle azioni di un Governo e dei suoi ministri è il popolo sovrano.

Aggiornato il 30 gennaio 2025 alle ore 16:34