Era in bilico l’asticella fra Kamala Harris e Donald Trump. Ma la radicalizzazione autolesionista dei movimenti americani d’ispirazione anti-occidentale ha spaventato la maggioranza dei votanti. La apatia del non-cambiamento, in continuità con Biden, pure. (Ha quindi vinto Trump).
Quei movimenti nel loro illiberalismo strizzano l’occhio ai fondamentalismi mediorientali, e auspicano illibertarie (insostenibili) pressioni fiscali.
È inutile negare che le correnti woke, unite alle frange più radicali della cancel culture, hanno spesso appoggiato la candidata Kamala Harris. Questi appoggi e simpatie peculiari, unitamente ad una mai avvenuta presa di netta distanza da parte della candidata nei confronti di quella fetta d’elettorato woke che senza dubbio le faceva comodo, non le ha permesso di conquistare il cuore dei più, negli Usa.
La fame di lotta alle ipocrisie dem, lontane dalle grandi conquiste democratiche che la storia ci mostra, non ha fatto prevalere la razionale cultura laico-liberaldemocratica. Ha fatto prevalere uno spirito più infantile nelle masse, in generale. Impera una voglia di cambiamento per il cambiamento in sé, insieme ad una voglia di spettacolarizzare la politica, al netto di ogni realismo geopolitico.
Farmaco contro il cancro dialettico del politically correct non può essere il trumpopulismo, così economicamente protezionista, antitetico rispetto alle esigenze del libero mercato transnazionale con l’Eurasia, con le Afriche e con le stesse Americhe latine.
Ciò che esce, plasticamente, da questa vittoria populista è l’incapacità dell’area repubblicana di esprimere candidati conservatori dotati d’equilibrio e di cultura liberale progressiva. Ciò che traspare in tutta dolente evidenza, in generale, è l’attuale impotenza organizzativa della cultura liberale statunitense.
Ai tempi del ritorno del trumpopulismo l’impotenza liberale diventa prepotenza. Al 47° presidente statunitense va adesso la sfida di sorprenderci, diversamente, con un processo razionale, empirico e valoriale di moderazione, nella sua comunicazione come nella sua azione politica.
L’impotenza liberale non riguarda soltanto il lato dei repubblicani, ma riguarda anche la sponda dei democratici. Da questi risultati esce una società spaccata in due: dove la maggiore urgenza politica, per le future generazioni americane dei conservatori e dei dem che verranno, è la fame. Su più fronti e per più versi.
Non c’è solo fame di risorse materiali meritocraticamente allocabili, non c’è solo fame di liquidità adeguate a far compiere ai giovani i necessari investimenti – liberi e senza frontiere – per poter vivere degnamente, con prospettive di pari opportunità transgenerazionali. Vige imperante anche una fame a più sfumature di cultura liberale: un vero paradosso per gli Usa. Un paradosso, però, tutto storicizzabile.
Gli Stati Uniti ci insegnano il bipolarismo da molto tempo. Noi italeuropei, certamente, ancora non possiamo insegnare agli Usa la terza via partitica. Il terzo polo liberalpopolare, infatti, è ancora in fase gassosa nelle nazioni europee, ad oggi. Bisognerebbe esplicare il nobile tentavo di edificarlo, con una casa liberale e demolibertaria accogliente, dalle cui rovine o dai cui successi riformisti trarremo di volta in volta i dovuti insegnamenti.
I liberali dovrebbero porsi il seguente dilemma, un po’ ovunque: anzitutto se esserci o non esserci, e poi come esserci. Se presentarsi con una terza via polare, o provare a militare per cambiare uno dei due soliti poli, oppure ingegnarsi per cambiarli entrambi trasversalmente.
Le sperimentazioni politiche con il metodo non dogmatico dell’empirismo razionale siano aperte. Ovunque, nelle Internazionali liberaldemocratiche, per il bene dell’ordine pubblico occidentale ai tempi dei raccapriccianti Brics, per la cura del nostro fragile stare insieme nelle diversità, e per la nostra umana evoluzione all’insegna di libertà e giustizia giusta.
Aggiornato il 07 novembre 2024 alle ore 10:48