Cara presidente Meloni, liberaci dalla casta colpevolista

Ma chi o cosa governa l’Italia dalla caduta della Prima Repubblica? Soprattutto perché in circa 33 anni sono cresciute insicurezza ed insoddisfazione degli italiani? Tutto questo malessere è principalmente dovuto all’estinzione della politica: ovvero quel cuscinetto in grado di calmierare le tensioni sociali anche, e soprattutto, ponendo un argine ai “grandi sacerdoti” del sistema (tecnici, magistrati, poliziotti, inquisitori fiscali, banchieri affamati, grandi studi legali internazionali, Ceo di multinazionali). E la colpa è tutta del Pci (partito colpevolista italiano) che di fatto governa l’Italia dal 1992, e lo fa commissariando la politica tramite i “grandi sacerdoti” appena menzionati. Si deve a questi super tecnocrati istituzionali la genialata d’aver capovolto il significato ed il senso della politica e della democrazia.

Questo è stato possibile soprattutto grazie ad un lento e logorante braccio di ferro tra tecnici e politici cominciato all’indomani dell’elezione di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica (ricordate che il picconatore mandò i Carabinieri al Csm per porre in arresto i giudici perché minacciavano il governo e Bettino Craxi in particolare). La battaglia è stata vinta dalla casta tecnico-sacerdotale laica. Ecco perché oggi è difficilissimo, dopo quasi quarant’anni dagli eventi di fine anni Ottanta, riportare la politica alla sua naturale centralità democratica. Chiunque cerchi di farlo verrebbe accusato di populismo, ovvero concedere al popolo recando dispiacere alla casta tecnocratica.

In circa quattro decenni, la casta ha usato strumenti di seduzione di massa come giornali e televisioni per introiettare nella gente un profondo senso di colpa. Così gli italiani si sentono oggi colpevoli di voler risparmiare, di voler proteggere la propria casa ed il patrimonio da trasferire a figli e nipoti, colpevoli di voler sempre lavorare, colpevoli di non aggiornare veicoli ed elettrodomestici a classe energetica e categoria euro, colpevoli di non offrire abbastanza aiuti ai migranti, colpevoli di non essere abbastanza rispettosi delle norme europee, colpevoli di sognare momenti di relax, colpevoli di non essere abbastanza animalisti, colpevoli di non essere a favore della gender culture, colpevoli di produrre rifiuti domestici, di avere un passatempo, colpevoli di non essere asessuati. Di logica conseguenza vivono nella continua paura che ogni loro colpa si trasformi in un processo penale, ed inimmaginabili conseguenze civili, risarcitorie. Ecco che l’italiano medio ha perso il sonno e pure la fantasia: quest’ultima componente indispensabile della genialità del Belpaese.

Il segreto del successo di Giorgia Meloni sta proprio nel suo tentativo di riportare la politica all’autorevolezza di cui godeva prima che il Partito colpevolista italiano prendesse il potere. Un lavoro defatigante, non privo di ostacoli. Perché il colpevolismo gode d’importanti pilastri tra magistratura, forze di polizia, professori universitari ed alti tecnocrati di banche e Commissione europea: ed evitiamo di farne i nomi, onde evitare conseguenze penali (querele e richieste risarcitorie). Perché la mancanza di libertà di stampa la si deve principalmente ai tecnocrati: i politici, quelli di un tempo, non querelavano mai. Diceva il saggio Giulio Andreotti “fare una smentita o peggio querelare significa dare due volte la notizia”. Ma queste raffinatezze non sono dei nostri tempi.

Non ci è dato sapere se Giorgia Meloni sia stata folgorata dalla visione ciceroniana dell’etiam nunc o da quella di Svetonio, certo è che il presidente del Consiglio potrebbe tentare un etiam nunc regredi possumus, e con questo atto politico accludere la propria epoca ad una novella svetoniana sulle nuove “Vite dei Cesari”. Sarebbe atto eroico, e senza eguali, ricacciare tra i sogni cattivi la cultura colpevolista. Ma una simile costruzione richiede concordia e collaborazione di tutte le forze della coalizione, soprattutto un cambio di passo nella gestione della cultura e della comunicazione. Perché per curare il malessere diffuso, l’inattività ed infelicità degli italiani (in Italia gli inattivi sono 34 milioni), necessita fare atti di magnanimità, perdonare ed amnistiare. Spegnere il continuo controllo sul lavoro, concedere anche un po’ d’evasione di necessità. E poi riavviare l’ascensore sociale: perché non è bello che in enti e società (come la Rai per esempio) possano entrare a lavorare e collaborare solo figli, parenti ed amanti della casta tecnocratico colpevolista.

Ma tutto è già capitato nella storia di questa terra, e le soluzioni ci vengono poste sotto il naso dalla storia. Il presidente del Consiglio potrebbe agevolmente trovare conforto nelle “Vite dei Cesari” di Svetonio, scoprendo che l’immenso Tiberio, dopo un quindicennio di relativa tranquillità, si dovette trovare a fronteggiare inaspettate insurrezioni della popolazione che tanto lo amava: la causa era tutta nel malgoverno dei magistrati che, inviati da Roma a gestire la giustizia nelle province, avevano deciso di vessare ed incarcerare le genti che mal sopportavano i gravosi tributi. In quella Roma pesavano come macigni le massime di Marco Tullio Cicerone (gigante che aveva preceduto il biografo Svetonio): “C’è dunque necessità di buoni magistrati, perché senza la loro saggezza e diligenza non potrebbe sussistere uno Stato, e sulla loro distribuzione si fonda tutta la gestione dello Stato”. Appunto buoni magistrati, e a Roma venivano eletti dal popolo, che dava fiducia ai plebei come ai patrizi, al popolo come agli aristocratici. Perché ogni magistrato era ed è investito di enorme potere, di quella maior potestas che può profondamente incidere sulle coscienze e sulla cultura di un popolo. Oggi quel potere gode d’una enorme cassa damplificazione: stampa, tivù, internet, programmi fiume e generalisti.

Forse potrebbe risultare impossibile riportare il protagonismo mediatico della giustizia a prima della riforma del codice di procedura penale del settembre 1988. Ma un bel po’ di medietà, di medietas latina, sarebbe auspicabile venisse imposta dalla politica a tutta la casta dirigente italiana (magistrati compresi): perché il primato della politica è primato del popolo, e bisogna non dimenticarlo mai. Diversamente, la politica non potrebbe porre alcun rimedio al male italiano, al colpevolismo, perché qualsiasi fiducia riposta dal popolo in un “nuovo corso” si risolverebbe sempre “nell’urna senza fondo” paventata da Machiavelli. Insomma, è giunta l’ora che la politica dimostri alla gente di non aver paura delle toghe, anche solo non prestando ascolto alle recite sull’etica di facciata. Del resto Machiavelli ci ha insegnato l’autonomia della politica, che nell’agire e nel fare leggi deve garantire solo il bene dei cittadini, e non certo di poteri che ieri insidiavano il ruolo del Principe ed oggi quello del presidente del Consiglio.

Aggiornato il 28 ottobre 2024 alle ore 13:40