Come è noto la figura dei partiti, basata su coesivi valori fondanti di riferimento, è andata progressivamente a scomparire, non solo in Italia, ma anche in realtà eredi già di solide democrazie, come la Francia, mentre a essi si sono venuti a sostituire dei leader carismatici – nella migliore delle ipotesi – o dei demagoghi “arruffapopoli”, nella peggiore. Nel qual ultimo caso ha avuto un peso notevole la regressione culturale di un elettorato divenuto conseguentemente più facile preda degli imbonitori di turno. Un’autorevole risorsa dell’esecrata (e oggi rimpianta) cosiddetta “Prima Repubblica” come Paolo Cirino Pomicino, sostenne in più di un’occasione la necessità di ricreare in Italia tre grandi forze ideali di riferimento, speculari all’attuale composizione prevalente nel Parlamento europeo: un Partito liberale, un Partito popolare (di ispirazione cristiana) e un Partito socialista; ma la sua rimase una Vox clamantis in deserto. I partiti tradizionali, che costituivano nella dialettica parlamentare e degli Enti territoriali la struttura portante del sistema democratico, si muovevano nella cornice di una Concordia discors cui si è perduta ogni traccia.
A essi si sono sostituite aggregazioni più o meno estemporanee, avulse da solidi ancoraggi ideali, economici, culturali, mentre l’unico elemento coesivo è dato da una mera logica di potere, dall’impegno alla ricerca di un consenso basato non sulla forza delle idee, bensì di estemporanee emozioni. Non si parla tanto alla mente, quanto “alla pancia”, vale a dire all’emotività transeunte, di cui sono rivelatori i sondaggi di opinione che registrano oscillazioni del consenso da una settimana all’altra. Volgarità, vuoti di idee, sopraffazione dell’interlocutore attraverso il volume della voce: sono questi gli ingredienti del nuovo modo becero di fare politica, nel cui contesto non ha più neanche senso compiuto parlare di “cambi di casacca”. Infatti, non esistono più le casacche (ovvero i partiti), ma solo – lo ribadiamo – estemporanee coesioni guidate dal demagogo di turno, assemblatore di un consenso destinato a emergere e a scomparire come la nota isola Ferdinandea nel Canale di Sicilia.
Nello scenario di inquietante “navigazione a vista”, con pesanti ricadute sulla affidabilità internazionale come sull’economia, l’Italia ha subìto una metamorfosi genetica, passando da un sistema fondato sulla politica come visione generale protesa al bene comune attraverso il confronto ideologico, allo scontro frontale senza esclusione di colpi, contro coloro che vengono considerati non più avversari, bensì veri e propri nemici, da screditare con ogni mezzo, vieppiù attraverso la comunicazione mediatica. Quanto suonano lontane e irreali le parole pronunciate quasi 70 anni fa da Luigi Einaudi prima del suo insediamento al Colle! Dovendo egli lasciare l’attività parlamentare, espresse il rimpianto di “non poter più partecipare ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non poter più sentire la gioia, una delle più pure che un cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui, a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte torto, e accedere, facendola propria, all’opinione di uomini più saggi di noi”.
L’invettiva da osteria, lo scadimento dell’eloquio anche da parte di soggetti investiti di alte funzioni istituzionali, la povertà dei contenuti oltre che della forma, hanno leso gravemente il prestigio delle Camere che anche nella formulazione prolissa, sovente contraddittoria e incomprensibile delle leggi, sono lo specchio di un Paese decadente, nel quale la cultura, già sale della democrazia, oggi è assolutamente e desolatamente “sciapa”. Alla crisi della democrazia hanno peraltro contribuito anche altri fattori, che per sommi capi passiamo in rassegna. La nostra democrazia complessivamente considerata, risulta oggi afflitta da sette “anomalie” – se non le si vogliono considerare vere e proprie piaghe – potenzialmente mortali per un organismo già fortemente debilitato nella sua intrinseca essenza di “potere derivante dal popolo”.
La prima è data da un potere legislativo esercitato quasi totalmente dall’Esecutivo a forza di Decreti-legge e di voti di fiducia, a fronte della mancanza dei prescritti requisiti di urgenza dei Decreti medesimi, sovente artificiosamente ridotti a un solo o due mega-articoli contenenti centinaia di commi. Per non dire dei Decreti legislativi, ridotti a una mera cornice di riferimento, rispetto alla vastissima potestà normativa di dettaglio demandata all’Esecutivo. La seconda è costituita da un potere normativo nel quale per un troppo lungo arco di tempo è stata determinante la contrattazione sindacale, al di fuori di una reale rappresentanza numerica. La terza è rappresentata dal potere normativo esercitato dalle varie “Autorità” o “Garanti”, intrinsecamente privi di qualsivoglia legittimazione popolare, le cui delibere – mancando la forma di legge – sfuggono al controllo di costituzionalità. Né i garanti o le autorità in parola, sono assimilabili nel loro agire al potere decisionale dei magistrati, in quanto i titolari di tali organi non sono stati selezionati per pubblico concorso a tutela della necessaria imparzialità e terzietà deliberativa, ma sono stati “nominati” in base ad un rapporto fiduciario con il potere politico.
La quarta scaturisce dal potere normativo indebitamente esercitato da una parte della Magistratura, che si è spinta creativamente fino all’ideazione di nuove figure di reati, al di fuori di quel principio di legalità sancito nella Costituzione, che si riallaccia alla civiltà giuridica dell’Illuminismo (Nullum crimen sine poena, nulla poena sine lege). A ciò si aggiungano quei magistrati che mirano non alla doverosa ricerca del Vero, da effettuare con animo sereno e imparziale nei limiti invalicabili fissati dalla Costituzione, bensì all’autopromozione della propria immagine con sovraesposizioni mediatiche, talvolta nella recondita aspirazione a una successiva entrata in politica. La tracimazione esuberante di qualche toga in cerca di notorietà prese l’avvio – come è noto – ai tempi della cosiddetta Tangentopoli, arrivando allo tsunami dei giorni nostri, con la recente incriminazione di un ministro non per aver egli commesso dei reati come un qualsiasi cittadino, ma per l’espletamento istituzionale della sua attività di governo, pienamente legittimata dal mandato conferitogli dal Parlamento sovrano.
La doverosa apoliticità della funzione giurisdizionale – come ricordava il nostro indimenticato maestro Giovanni Cassandro (1913, 10 ottobre 1989), giudice costituzionale e ordinario alla Sapienza di Storia del diritto italiano – era un presidio della certezza del diritto, dell’eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge e della loro libertà. Allorché i magistrati applicavano la norma astratta al caso concreto – notava l’insigne giurista – creavano indubbiamente un Quid novi, che però sorgeva ex vinculis dal corpo precostituito delle norme e, pertanto, non era condivisibile l’operato di quei giudici i quali pensavano che “la giustizia deve essere amministrata non applicando la legge e servendo la legge, ma piegando la legge (attraverso l’interpretazione) a strumento eversivo di un ordinamento che non realizza o non realizza ancora l’ideologia che i giudici prediligono, difendono, propagano, e intendono addirittura attuare con le loro sentenze”.
I magistrati, come recita testualmente l’articolo 101 della Costituzione, sono soggetti soltanto alla legge, che pertanto costituisce per un verso la fonte del loro potere, e per altro verso ne costituisce il limite invalicabile: sono la “bocca della legge”, ma non ne sono essi stessi fonte. La quinta piaga in elenco, è quella di un potere legislativo che rischia di divenire appannaggio di maggioranze artificiosamente svincolate da ogni reale rappresentatività elettorale, in ossequio a un principio di stabilità che è certamente auspicabile a fronte della volatilità dei governi succedutisi nei quasi 80 anni di storia della nostra Repubblica, ma che non può essere supportato da alchimie puramente matematiche, a prescindere da un sincero minimo comune sentire dei “contraenti”. La sesta piaga è quella di un potere legislativo fortemente condizionato, quando addirittura non espropriato in nome dell’Europa, da parte di tecnocrati e protagonisti del mondo finanziario privi – ovviamente – di qualunque mandato democratico. Il problema principale è costituito dal progressivo affermarsi del primato dei “mercati” su qualsiasi altra considerazione, sicché l’Unione europea, pur ideata e sviluppata come sintesi di valori morali condivisi, ha smarrito strada facendo la sua originaria identità, acquisendo fra il tramonto del secolo XX e l’alba del XXI, quella assai meno suggestiva di “ancella” della Finanza internazionale. Quest’ultima, avvalendosi delle braccia operative del Fondo monetario internazionale e della Banca centrale europea, ha sostanzialmente svuotato l’Europa della sua soggettività giuridica, politica e morale, legittimata dal volere degli elettori comunitari.
Il mercato andrebbe valutato – come insegnava l’economista Friedrich von Hayek – non solo nella capacità di generare nuovo denaro, bensì e soprattutto nella sua capacità di promuovere la libertà individuale, anche tramite i servizi che lo Stato è chiamato a erogare, in un’ottica di politiche sociali attente ai diseredati e agli emarginati. Parlando di mercato, non ci riferiamo a un sistema di regole mutuate dall’economia reale della produzione e dello scambio di beni e di servizi, ma assai più modestamente ai meccanismi di un’economia finanziaria autoreferenziale, fine a se stessa e assolutamente indifferente ai diritti fondamentali, la cui tutela è la ragion d’essere della Costituzione medesima. Il concetto stesso di politica, vale a dire di un agire nell’interesse della Polis, o collettività che dir si voglia, si è andato a svilire e a corrompere: oggi siamo all’agire funzionale agli interessi di detti mercati, le cui regole sono intrinsecamente asettiche, avalutative, prive di qualsivoglia aggancio all’etica in genere e alla dignità della persona in specie.
I cosiddetti “Governi tecnici” che nel passato hanno operato in Italia, avevano autoreferenziali pretese di “oggettività”, ma agirono in realtà decidendo d’imperio vincoli di bilancio imposti da autorità monetarie e sovranazionali, con il supporto di private agenzie di Rating, orientate a interessi settoriali e senza alcun vaglio della loro attendibilità o veridicità circa le stime da loro espresse. Un cambio di passo regressivo si è tradotto normativamente nella riformulazione dell’articolo 81 della Costituzione, che ha sancito il pareggio di bilancio con nuova e più stringente tassatività, rispetto alla precedente dizione, ponendo nuovi problemi di ordine costituzionale, etico, politico ed economico, in relazione a quella connotazione socialmente orientata, che costituì il “quid novi” identitario dello Stato repubblicano, rispetto al precedente regime statutario.
La nostra Costituzione italiana è basata infatti su di una serie di principi ispiratori, come i diritti fondamentali della persona umana, “riconosciuti” nella loro anteriorità logica alla Costituzione medesima, che nella loro tutela trova la sua ultima ragione di esistere e il limite invalicabile nello stesso tempo per ogni sua eventuale modifica. Ne consegue che neanche le regole comunitarie, peraltro assai sensibili alle istanze dei mercati finanziari, possono stravolgere le basi del nostro ordinamento. Costantino Mortati e altri grandi costituzionalisti, definirono “rottura dell’ordinamento” una siffatta ipotesi, che oggi si configura come una specie di colpo di Stato strisciante realizzato in nome dell’Europa, che svuota di contenuto il concetto stesso di democrazia rappresentativa, con i correlati sistemi elettorali, nel momento in cui gli interessi collettivi sono demandati a un’oligarchia bancaria autoreferenziale, spinta dalla mera molla del profitto speculativo.
Tra gli “sprechi” tagliati in ossequio al totem dei conti in ordine, vennero falciate anche le risorse destinate alle Forze Armate e alle Forze dell’Ordine, il che ha significato non soltanto uno stravolgimento dello Stato sociale, bensì dello Stato tout court, nel momento in cui è stato tradito il cosiddetto patto sociale tra rappresentanti e rappresentati, volto a garantire a questi ultimi, a fronte del pagamento dei tributi, la tutela da aggressioni esterne e interne avverso i diritti fondamentali dell’ integrità fisica, della proprietà e della libertà. “Dove tutto si misura col danaro, non è possibile che la vita dello Stato si svolga giusta e prospera”, insegnava san Tommaso Moro già nel secolo XVI. Nell’Illuminismo, Nicolas de Condorcet (secolo XVIII) sostenne che per superare le diseguaglianze determinate dalla libertà dei commerci, era doveroso garantire la priorità dell’istruzione ai cittadini, e concetti analoghi furono espressi dal contemporaneo Adam Smith.
Nell’età contemporanea la tesi in questione, viene ribadita dai due Nobel per l’economia Joseph Stiglitz (autore del saggio The price of inequality) e Amartya Sen. In ultimo, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky avvertì che l’ancoraggio dello Stato a delle mere regole commerciali, significava la fine dello Stato medesimo. La settima piaga – che è la più importante – è costituita dalla regressione del sapere. Un pur brillante e apprezzato ministro di un ormai remoto governo, prigioniero di una visione esclusivamente tecnico-economicistica della vita, affermò sconsideratamente che “con la cultura non si mangia”. Ma la cultura è come l’ossigeno per l’uomo: senza di esso muore la stessa democrazia. Essa è la risultante di due elementi di vitale importanza:
1) La chiarezza della norma, condizione necessaria, ma non sufficiente, per una più intensa sintonia fra il le Istituzioni e i cittadini destinatari delle leggi medesime (in claris non fit interpretatio). Durante i lavori all’Assemblea costituente, Umberto Terracini e Piero Calamandrei sostennero la necessità che la futura Costituzione fosse un esempio di ponderazione nelle espressioni, che dovevano risultare semplici e comprensibili. Camillo Ruini, in risposta a taluni rilievi che erano stati sollevati nel corso delle discussioni preliminari, aveva cosi spiegato: “Lo stile della Costituzione e cosa specialissima. Dovrebbe essere semplice, solenne, lapidario”.
2) La cultura dei destinatari, intesa come fattore funzionale al discernimento e a conseguenti scelte informate e mature, al fine di una rappresentanza parlamentare qualificata e non demandata a improvvisati “professionisti del bene comune”, frutto di quella disaffezione dalla politica che ha avuto inquietanti riscontri nell’ aumento dell’astensionismo elettorale, così come nella protesta canalizzata in movimenti capaci solo di esprimere sterili denunzie, ma non già di formulare costruttive e meditate proposte.
La caduta libera della cultura si è tradotta pertanto nella crisi della politica contemporanea, dove l’agone si è ridotto a invettiva sguaiata per demonizzare l’avversario, svilito a vero e proprio nemico, da spiare anche nei recessi più reconditi della sua vita affettiva e familiare. La legalità di uno Stato va ancorata al consenso liberamente espresso e del pari liberamente revocabile da parte dei suoi cittadini. Presupposto di ogni autentica libertà – lo ribadiamo – è sempre la cultura: non è dunque un caso se tutti i regimi totalitari del passato e del presente, hanno osteggiato l’istruzione, poiché la circolazione delle idee, attualmente molto più rapida grazie alle moderne tecnologie e alla facilità dei viaggi, può risultare eversiva dell’ordine arbitrariamente imposto, ovvero di un potere arbitrariamente esercitato.
Senza cultura non vi può essere democrazia, che è prima di ogni altra cosa discernimento e comprensione di ciò che accade intorno a sé. Non a caso il Calamandrei (1889-1956) scriveva che la scuola andava considerata “organo centrale della democrazia e complemento necessario del suffragio universale”. Problemi non del tutto dissimili dai nostri affliggono le democrazie rappresentative europee, che stanno pagando lo scotto di aver anteposto una visione monetaristica e tecnocratica, a quella della centralità della dignità della persona che è retaggio del Cristianesimo e dell’Illuminismo. Quanto al primato della scienza, già nel secolo XIX Francesco De Sanctis, insegnando al Politecnico di Zurigo, aveva avvertito i suoi allievi, profani di letteratura, che prima di divenire ingegneri, dovevano mirare a formarsi come cittadini completi, il che era impossibile senza una pur contenuta formazione letteraria, da lui considerata come momento ineludibile di sintesi tra tecnica e umanesimo. Concludiamo con uno dei numerosi richiami del capo dello Stato al valore della cultura, non solo come momento coesivo dal quale sin dall’età della Rinascenza medioevale prese l’avvio la stessa idea di Europa, ma anche come strumento straordinario di crescita personale e collettiva.
Aggiornato il 22 ottobre 2024 alle ore 13:27