Il vero “rischio culturale” è dentro di noi

Votare no al referendum promosso dalla sinistra, reso possibile dal raggiungimento del quorum, non significa essere contrari al riconoscimento della cittadinanza a chi risiede legalmente in Italia da più tempo. Personalmente sarei però più orientato a incoraggiare l’approvazione della proposta di Forza Italia, tesa a conferire la cittadinanza a chi frequenta il ciclo di studi di dieci anni nelle nostre scuole. Ovviamente su questa seconda alternativa non si può organizzare alcun referendum perché la nostra Costituzione prevede solo quelli abrogativi e non quelli propositivi. Sta dunque alla politica, all’interno dell’attuale maggioranza, discutere quale sia la soluzione più accettabile, lasciando all’opposizione la consueta manifestazione di perenne strumentalizzazione finalizzata a far credere che tutta la maggioranza sia contro qualsiasi miglioramento della normativa attuale accusandola, anche per questo verso, di mostrare il vero volto di una destra sciovinista e reazionaria.

Al di là di tutto questo, c’è la sostanza ambigua della questione: pare infatti che un italiano su due sia contrario al quesito referendario e, così come probabilmente vale per i sostenitori, può essere che il voto favorevole o contrario sia guidato da preferenze politiche, pro o contra il Governo e la sua maggioranza, più che da considerazioni di apertura o di chiusura. Certo è, comunque, che la concessione della cittadinanza non entusiasma molto e, anzi, genera uno scetticismo che spesso sfocia nella contrarietà. Poiché il conseguimento della cittadinanza, sia quella già possibile attualmente sia quella praticabile a seguito di una nuova legge, non riguarda il fenomeno dell’immigrazione illegale che giustamente è fonte di preoccupazione, il dissenso non può che avere altre origini.

La più diffusa, dichiarata apertamente da cittadini e uomini politici, consiste nell’opportunità che il richiedente debba dimostrare di conoscere e condividere la nostra “cultura”, specificata in termini quali valori, principi, storia, tradizioni e così via. Tutto ciò mi sembra decisamente improprio, per niente lungimirante e persino buffo. Per un liberale la “cultura” non è qualcosa di massiccio, stabile ed eterno bensì un insieme intrinsecamente instabile e dinamico che dipende da fattori che non è quasi mai possibile controllare, nemmeno da parte di uno Stato totalitario. Al posto di ulteriori precisazioni di ordine sociologico e antropologico, pensiamo semplicemente all’espressione “eh, ai miei tempi”. Già: nessuna generazione, soprattutto da quasi un secolo a questa parte, si riconosce del tutto in quella successiva. Tuttavia in ItaliaPaese di esterofili in patria e campanilisti all’estero – la modernizzazione sviluppatasi dal Secondo dopoguerra ha generato trasformazioni notevoli ma spesso dal carattere piuttosto effimero. E ciò non perché, sulle cose importanti, siamo orgogliosi apologeti della nostra “cultura”, ma solo perché ci piace apparire più che essere, esibire modernità più che coltivarla davvero. Basti pensare alla dilagante moda dell’inglese per la quale non esistono più le espressioni come “va bene”, “riunione”, “fare spese” o “stato d’animo” ma solo ok, meeting e shopping, mood, e mille altre, o alle denominazioni dei nostri negozi, una su due dei quali è in lingua inglese.

Poi pretendiamo che i giovani che richiedono la cittadinanza parlino l’italiano. Una prova che molti italiani, anche fra i difensori della nostra “cultura”, difficilmente sarebbero in grado di superare riuscendo a malapena, fra l’altro, a ricordare chi erano, che so, Cesare Beccaria o Francesco Petrarca, per non parlare della storia scientifica italiana o magari di Marco Tullio Cicerone e del latino, nostra radice culturale profonda ma, chissà perché, drasticamente eliminata dai programmi delle scuole medie. D’altra parte la lingua è effettivamente l’unico e irrinunciabile requisito rilevante per la concessione della cittadinanza perché attraverso di essa chiunque, indipendentemente dalla sua origine geografica, può apprendere usi e costumi del Paese ospite, magari criticamente purché pacificamente, e soprattutto prendere atto delle regole giuridiche da rispettare contribuendo così positivamente alla dinamica culturale che è comunque inevitabile. Chi ama la nostra cultura, quella senza le virgolette, ha una sola cosa da fare: conoscerla davvero e onorarla nella condotta quotidiana. E in quella istituzionale.

Aggiornato il 02 ottobre 2024 alle ore 11:38