Secondo una azzeccata teoria del compianto Giulio Savelli – mio indimenticato amico e mentore – sulla politica italiana, il sistema è da tempo caratterizzato da una sorta di alternanza democratica obbligatoria. Una dinamica inesorabile che prima dei grillini ha duramente sperimentato Matteo Renzi, che a partire dal risultato bulgaro conseguito alle Elezioni europee del 2014, nelle quali a capo del Governo e del Partito democratico ottenne circa il 41 per cento dei consensi, fu interessato da una rapida e inesorabile parabola discendente che – malgrado i suoi continui tentativi di scompaginare le carte in gioco – lo ha ridotto a svolgere un ruolo sempre più marginale, condannandolo ad una sostanziale irrilevanza politica.
Molte sono, evidentemente, le ragioni del suo declino, tuttavia una in particolare lo accomuna al destino degli scappati di casa del Movimento 5 Stelle: l’uso spregiudicato delle promesse quando si è trovato nel ruolo di giovane outsider di belle speranze. Un ruolo che, in un Paese che troppo spesso tende a dare credito a chi si presenta col crisma della novità come cifra politica, unito ad un abile uso della parlantina e della demagogia, fa credere a tanti ingenui elettori di aver finalmente trovato una sorta di Messia laico in grado di risolvere tutti i loro problemi, trasformando l’Italia nel Paese di Bengodi. In questo senso, al pari dei grillini, il leader di Italia viva ha fatto la fine di chi troppo in alto sal, cade sovente precipitevolissimevolmente.
D’altro canto, le sue spregiudicate alchimie per acchiappare consensi quando, tranquillizzando un attimo prima, prese il posto di Enrico Letta a Palazzo Chigi, parlano ancora da sole. In particolare l’operazione dei famosi 80 euro, finanziata massacrando le cosiddette rendite finanziare – in realtà i risparmi degli italiani investiti in azioni e fondi comuni – e quella ancor più machiavellica, finalizzata ad ingraziarsi il carrozzone della Rai, del canone in bolletta, non mi sono mai sembrate mosse degne di uno statista che guarda alle prossime generazioni. Tant’è che l’ultima, a mio avviso disperata, mossa dell’uomo di Rignano sull’Arno per restare ancora in sella, appare assolutamente in linea col personaggio. La sua apertura nei riguardi del campo largo, che è monopolizzato da tutta una serie di istanze radicali incompatibili con le condizioni complessive dell’Italia, rinnegando l’idea del terzo polo, perseguita quando a guidare il centrosinistra c’era un moderato, non sembra avere molte prospettive. Rischiando di far fuggire i pochi consensi rimasti verso il più prudente Carlo Calenda.
Comunque sia, voler fare l’ala moderata di una alleanza tra una sinistra sempre più sinistra e gli arcipopulisti di Giuseppe Conte già adesso sta creando fondati malumori all’interno di Iv. Tant’è che Luigi Marattin, chiedendo esplicitamente un nuovo congresso del partito, ha bocciato la scelta di Renzi ritenendola come un assurdo “bilanciamento riformista tra chi vuole la patrimoniale, uscire dalla Nato e abolire il Jobs Act”. Non credo ci sia molto altro da aggiungere.
Aggiornato il 23 luglio 2024 alle ore 11:45