I commentatori, specie se di sinistra, hanno quasi sempre la memoria corta. Solo poche settimane fa, di fronte al successo elettorale della destra italiana, si sbracciavano nel sostenere che non era tutto oro ciò che luccicava, poiché Fratelli d’Italia aveva raccolto solo circa il 30 per cento. Oggi, davanti al successo francese della gauche, dimenticano di precisare che ha raccolto solo il 34 per cento. Gli stessi commentatori da circa due anni non fanno che sottolineare le divisioni prospettiche e ideali della destra italiana ma, poi, sorvolano sul panorama a dir poco variegato del cosiddetto Fronte popolare francese (per non parlare del desolante panorama italiano), come se si trattasse di un blocco sociale ed elettorale massiccio e compatto. E non, invece, di un groviglio di mille anime destinato a frantumarsi spettacolarmente.
La sinistra italiana, da parte sua, festeggia l’apparente vittoria di quella francese invocando, anche da noi, l’unità mostrata dai transalpini contro la destra. Anche qui, scordando che uniti si può vincere ma non necessariamente governare, poiché le sinistre – italiana e francese – sono da sempre troppo legate, direi addirittura avvolte, dall’ideologia e mancano totalmente di pragmatismo. Insomma, siamo alle solite: la sinistra ha sussulti positivi, in termini elettorali, quando si tratta di essere contro qualcosa o qualcuno. Però crolla, e si fa in pezzi, quando si tratta di essere e agire per obiettivi chiari e condivisi da un programma.
Basta leggere i punti solennemente dichiarati da Jean-Luc Mélenchon per rendersene conto: salario minimo, età pensionabile, riconoscimento della Palestina sono altrettante mine sotto ogni possibile alleanza, persino all’interno dello stesso Fronte popolare. E la miccia è già accesa. In questo quadro, è decisamente penoso che Elly Schlein cerchi di rinvigorire un campo largo decisamente arido parlando, grande idea innovativa che induce notevoli e profonde riflessioni, di nuove imposte patrimoniali. Un argomento che accende gli animi e, va da sé, le piazze. Ma non porta lontano.
Per la sinistra, sarebbe invece salutare come uno stimolo per abbandonare per sempre l’ostinata visione del mondo che in larga parte continua a professare – in cui la politica interna, diffidente verso l’economia di mercato, si fonde con quella estera contro Israele e magari la stessa Nato – guardare all’esito delle elezioni inglesi. Lì, il pragmatismo è di casa e la sinistra si sbarazza facilmente e felicemente di ogni massimalismo in favore di una visione che, tradizionalmente, potremmo definire socialdemocratica. Una visione certamente e comprensibilmente più attenta alle questioni sociali di quanto lo sia quella dei conservatori, ma sempre solerte, soprattutto nell’interpretazione del vincitore Keir Starmer, nei confronti della solidità dei conti pubblici, da un lato, e alle alleanze occidentali, dall’altro. Il tutto sotto la spinta, correttamente provocatrice, dei liberal-democratici in un quadro sostanzialmente bipolare non perfetto ma sufficientemente efficiente e stabile.
Lì, l’alternanza è una regola preziosa. E la vittoria degli uni sugli altri non è altro che la sua applicazione, utile, per l’intera società. Da noi, e in Francia, la vittoria alle elezioni, se riguarda la sinistra, è invariabilmente vissuta, fra urla e lacrime, come storica, come fosse il punto di arrivo definitivo di un progresso irreversibile in cui la destra e gli interessi che essa difende sono condannati all’estinzione. E con la sinistra capace di portare, definitivamente sulla scena, la felicità universale. Ma, per fortuna o purtroppo, non è così.
Aggiornato il 11 luglio 2024 alle ore 10:13