Le due vicende belliche che stanno tenendo il mondo con il fiato sospeso per il pericolo di una Terza guerra mondiale, sono quelle della proditoria aggressione della Russia contro l’Ucraina, e quella dei terroristi di Hamas contro Israele. A margine di ciò, il Santo Padre lo scorso 1° novembre in un’intervista al Tg1 ha espresso i suoi timori per un’escalation mondiale del conflitto in Medio Oriente, come anche in Ucraina, senza tralasciare altre aree come Kivu, lo Yemen, il Myanmar con i Rohingya, che erano “dei martiri”. “Il mondo è in guerra – ha proseguito – ma c’è l’industria delle armi dietro. Ogni guerra è una sconfitta. Non si risolve nulla con la guerra. Tutto si guadagna con la pace, con il dialogo”, riferendosi in particolare alla necessità di realizzare due Stati, per i palestinesi e per gli israeliani. Nell’intervista è stato affrontato anche il tema della guerra in Ucraina, definito “un popolo martire” dal Santo Padre, che ha ripetuto “ci vuole la pace. Fermatevi! Fermatevi un po’ e cercate un accordo di pace, gli accordi sono la vera soluzione di questo. Per ambedue”.
Un suo predecessore, Papa Giovanni XXIII, impedì l’olocausto nucleare nel 1962 durante la crisi di Cuba che vide contrapposte l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, attraverso un radiomessaggio per salvare il bene supremo della pace, parlando alle coscienze di milioni di persone, senza distinzione di credo religioso. “La Chiesa –disse – non ha nel cuore che la pace e la fraternità tra gli uomini, e lavora, affinché questi obiettivi si realizzino. Noi ricordiamo a questo proposito i gravi doveri di coloro che hanno la responsabilità del potere”. E aggiungiamo: “Con la mano sulla coscienza, che ascoltino il grido angoscioso che, da tutti i punti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, sale verso il cielo: Pace! pace!”. L’intervento pontificio consentì alla fine dell’ottobre 1962 la ripresa delle trattative diplomatiche tra le due grandi Potenze, con lo smantellamento dei missili da parte dei russi, ed il rispetto dell’indipendenza di Cuba da parte degli americani. L’esperienza drammatica della crisi di Cuba indusse Papa Roncalli nell’aprile del 1963 a scrivere – l’Enciclica Pacem in Terris, la prima indirizzata non soltanto all’Episcopato ed ai fedeli, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”. All’alba del nuovo millennio, dopo la strage delle Torri gemelle l’11 settembre 2001, l’accendersi o il riacutizzarsi di conflitti non più basati sulle ideologie, ma sul fanatismo etnico o religioso, con le brutalità che ne sono conseguite, ha rotto l’incantesimo ed ha posto il mondo civile innanzi al problema dell’ingerenza umanitaria, cioè della possibilità di effettuare un intervento armato all’interno di uno Stato sovrano, con il fine preminente di proteggere popolazioni civili vittime di gravi e reiterate violazioni dei diritti umani fondamentali. La relativa questione detta “della “guerra giusta” prese le mosse da Sant’Agostino, ed a seguire da Isidoro da Siviglia, Graziano, San Tommaso d’Aquino e altri, nella configurazione di alcuni indispensabili requisiti quali:
1) la sussistenza di un motivo giusto;
2) la relativa deliberazione da parte di un’autorità legittima;
3) l’esistenza di una retta intenzione.
In tema di guerra “giusta” la dottrina romanistica considerava senz’altro lecita quella difensiva, previa formale dichiarazione di guerra. Del pari nella Shari’a la guerra deve essere avere una giusta motivazione, quale la difesa della patria o della libertà religiosa. In campo laico, seppure con diverse sfumature, Grozio, Campanella, Hobbes e Kant consentirono sul principio che la libertà, al pari di altri diritti naturali pre-statuali – come la dignità della persona – doveva delimitare il potere sovrano dello Stato nei riguardi dei cittadini e costituire il frutto di un’evidenza razionale comune a tutti i popoli. Nell’età dell’illuminismo si diffuse compiutamente il pensiero di una “ragione universale” uguale ovunque e tra gli uomini di ogni era, assertrice di diritti naturali perenni. La centralità dell’uomo e della sua dignità, ben presente nel mondo greco-romano, nell’ebraismo e nel cristianesimo, cioè nelle principali radici della cultura europea, fu recepita dal Nuovo Mondo nella Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo del 1776, e tredici anni dopo venne altresì inserita nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Francia rivoluzionaria. Dopo la Seconda guerra mondiale si realizzò a livello internazionale un significativo ampliamento di prospettiva, in quanto non più e non solo il singolo individuo, ma interi gruppi, comunità e minoranze divennero oggetto di guarentigie internazionali.
Con questo spirito fu siglato 1’8 agosto 1945 l’Atto di Londra per la repressione dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. Poco prima, il 24 giugno, era stata redatta la Carta di San Francisco, istitutiva delle Nazioni Unite, aventi lo scopo di assicurare lo sviluppo ed 11 rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione. Cinque anni dopo fu sottoscritta la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani, che sulla stessa falsariga così recitava: “Tutti sono uguali innanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’uguale tutela da parte della legge”. Alla stregua di siffatte premesse normative, le successive “pulizie etniche”, le discriminazioni razziali, le repressioni brutali del dissenso nei regimi totalitari, avrebbero costituito altrettanti crimini a livello mondiale: la Grecia dei Colonnelli, il Cile di Pinochet, l’Argentina di Videla, Cuba, la Cina maoista, l’Urss ed i suoi satelliti, la ex Jugoslavia, Timor Est, il Rwanda, l’Iraq. Innanzi alla violazione di diritti fondamentali all’interno di uno Stato, come quello alla vita, alla libertà, alla proprietà, di cui lo stesso Stato ha il compito prioritario di assicurare il pacifico godimento, scatta da parte della collettività il “Diritto di resistenza”, definito “il diritto del singolo o di gruppi organizzati o di organi dello Stato, o di tutto il popolo, di porsi con ogni mezzo, anche con la forza, all’esercizio arbitrario e violento, non conforme al diritto, del potere statale”.
A far data dal XVI secolo, in Europa era stato precisato il concetto di Stato, distinto dalla persona del re e ad esso superiore, con la conseguenza ovunque accettata che se il sovrano violava le leggi, operava da parte della collettività siffatto diritto, che mirava alla restaurazione dell’ordine violato ed alla cessazione del potere arbitrariamente esercitato; ma non alla creazione di un sistema nuovo, come accade viceversa nelle rivoluzioni. Questo diritto giusnaturalistico poteva e può attivarsi non solo nell’ipotesi citata di tirannide quoad exercitium, ma anche in quella dell’assunzione arbitraria del potere sine titulo, cioè in seguito ad un colpo di Stato che pone fine ad un regime che gode del consenso popolare. Nel XX secolo il diritto di resistenza è tornato di triste attualità nei Paesi totalitari, ma non in quelli liberi, dove non avrebbe ragione di esistere perché – in Italia lo evidenziò efficacemente la Commissione per la Costituente – è incompatibile con lo stato democratico, nel quale il popolo “ha competenza di interventi diretti per determinare il funzionamento dei poteri supremi”. Innanzi a dittature sanguinarie, dove i popoli non riescono da soli a liberarsi dal terrore che li opprime, la collettività internazionale non può limitarsi a blande esecrazioni verbali, ma ha il dovere morale e giuridico di intervenire, senza che ciò possa ritenersi violazione di alcuna sovranità, dato che quest’ultima non è una sacrale astrazione, ma trova fondamento concreto nell’esercizio di un potere di rappresentanza di interessi della collettività, che solo il consenso della stessa può legittimare. È solo partendo da questa riflessione che può ritenersi giuridicamente ed eticamente lecito il nostro stesso Risorgimento, in quanto aderente all’anelito degli italiani frammentati nelle tante “piccole Patrie” di crociana memoria, ad appartenere a una sola.
Qualora viceversa dovesse continuare a privilegiarsi l’impostazione dell’intangibilità degli Stati (e quindi anche di quelli pre-unitari), le guerre di indipendenza andrebbero tuttora considerate come altrettante violazioni del diritto internazionale, non certo sanabili a “posteriori” con la ricostruzione degli eventi effettuata dai vincitori: se una guerra sia giusta o meno, non possono deciderlo le sorti della stessa, ma le condizioni che la hanno resa necessaria. Per l’insieme delle suesposte ragioni, riteniamo altresì che abbattere una dittatura, anche con un intervento armato esterno, significa consentire ad un popolo di riappropriarsi di ciò che gli è stato fraudolentemente sottratto in spreto ai sentimenti universali di giustizia. L’inerzia o l’intempestività dell’Onu innanzi a tante situazioni che necessitano rapidità di decisione e di intervento, sono dovute alla obsolescenza delle procedure che ne disciplinano l’agire. Livio avrebbe detto: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”. La Carta dell’Onu, ratificata in Italia con Legge del 17 agosto 1957, prevede l’autodeterminazione dei popoli, il progresso sociale e la promozione dei diritti fondamentali. Le controversie internazionali devono essere risolte con dei mezzi pacifici in modo che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo. Gli Stati membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza – prosegue il documento – sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.
Ribadito il dovere di non intervenire in questioni “che appartengono alla competenza interna di uno Stato” come regola generale, Io Statuto dell’Onu ne ammette tuttavia l’eccezione nel caso di minacce o violazioni della pace e nell’ipotesi di atti di aggressione. La norma qui riportata sulla cosiddetta “competenza domestica”, ha sovente bloccato l’Onu nell’intervenire a difesa dei diritti umani all’interno di uno Stato che li calpestava; la qual ultima difesa — come fu bene osservato da Maria Rita Saulle — è una norma di Ius cogens che nella gerarchia delle fonti è sovraordinata a quella sulla competenza domestica. La Carta affida al Consiglio di sicurezza il compito specifico di mantenere la pace e la sicurezza internazionale; ma ditale organismo fanno parte, oltre ai rappresentanti di 10 Stati membri eleggibili ogni 2 anni, 5 rappresentanti degli Stati membri permanenti (Usa, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia). Basta il potere di veto di uno solo di questi ultimi a paralizzare ogni intervento umanitario. Si tratta di un equilibrio di forze risalente alla fine della Seconda guerra mondiale, con i blocchi Est-Ovest ed il conseguente “congelamento” di valori e di relazioni ampiamente poi superate dal corso della storia e dall’evoluzione del comune sentire verso una nuova concezione, che esalta la centralità dell’Uomo e della sua dignità prima dello Stato, che non è un’entità hegelianamente suprema, ma è lo strumento organizzato per tutelare i diritti correlati a tale dignità. L’Onu, definita da Barbara Spinelli “l’ombra del passato ordine mondiale, che si allunga nel secolo appena cominciato e lo corrompe”, deve essere riformata con l’abolizione, innanzi tutto, del diritto di veto dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, e l’attribuzione a quest’ultimo del potere-dovere di deliberare a maggioranza dei suoi membri e dì attivare, ove necessario, anche interventi armati a tutela dei diritti calpestati.
Nelle controversie la prima soluzione da cercare – recita la Carta – è quella negoziale o arbitrale, ma se le trattative fra gli Stati interessati non hanno esito favorevole, il Consiglio di sicurezza decide quali misure adottare senza l’impiego della forza, come l’interruzione parziale o totale delle relazioni diplomatiche, economiche, delle comunicazioni viarie, postali, telematiche e radiotelevisive. Se tutto ciò non basta, il Consiglio di sicurezza può intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. L’articolo 51 della Carta in esame, in particolare, contiene una previsione che sotto un profilo di diritto astratto riterremmo ultronea, poiché sancisce, con un potere che evidentemente è solo ricognitivo e non costitutivo, che “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Dal momento che l’articolo appena citato prevede nelle more decisionali il ricorso ad un diritto naturale di autodifesa, non sembra di potersi aprioristicamente escludere in linea di principio una pari liceità giusnaturalistica di un intervento umanitario, nel caso di gravi e reiterate violazioni dei diritti umani all’interno di uno Stato liberticida, perlomeno fintantoché non avrà luogo la riforma del paralizzante potere di veto cui si è fatto cenno.
È il diritto vivente, cioè il sentire dei popoli martoriati ed oppressi, che deve prevalere sull’inazione cui sono altrimenti costrette le Nazioni civili a causa dei paralizzanti bizantinismi dell’Onu. Nel diritto romano si riteneva “iniqua” la norma o l’istituzione non rispondente al comune sentire e tali sono gli ordinamenti totalitari, per cui nel protrarsi dello stato di necessità di salvare popoli repressi nei loro più elementari diritti, ogni intervento effettuato in loro aiuto, è “equo” perché rispondente alla volontà di riscatto morale e civile delle vittime. Una riflessione sull’ingerenza umanitaria non può prescindere da qualche cenno alla dottrina della Chiesa, che è doverosamente ispirata al valore della pace, ma che in talune circostanze consente il ricorso alle armi. Devono sussistere dei validi motivi, quali la tutela della libertà (di quella religiosa in particolare) e di un “minimo ordine negli affari internazionali”. Sotto il profilo soggettivo deve esservi una “autorità pubblica responsabile” (a livello internazionale l’Onu) per la decisione di belligeranza, che deve essere ispirata da un’onesta intenzione, da escludersi nelle vendette e nelle rappresaglie. In ultimo occorre la proporzionalità, nel senso che i danni che si possono provocare non devono superare il bene che si vuole tutelare. Queste linee-guida risalgono essenzialmente al Concilio ecumenico Vaticano II e vanno integrate con gli insegnamenti dell’ultimo Catechismo, che riferendosi in particolare alla legittima difesa militare richiede:
1) che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla Comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo;
2) che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;
3) che vi siano fondate condizioni di successo;
4) che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare.
La Santa Sede dunque, innanzi alla sussistenza di determinate condizioni, consente l’uso della forza. Quando una sovranità nazionale con gravi atti, come nel caso dell’eliminazione di interi gruppi etnici, religiosi o linguistici, va contro il bene fisico, morale, culturale e religioso delle popolazioni sottoposte alla propria giurisdizione, compie dei crimini contro l’umanità e contro Dio. Ciò autorizza altre autorità, specie quelle superiori, qualora esistano, all’intervento in favore dei gruppi oppressi, sulla base di regole internazionali comuni e certe. Gli argomenti della sovranità nazionale e della non ingerenza, non possono essere addotti come pretesto per impedire l’intervento in favore delle persone aggredite. Finita la seconda guerra mondiale il Romano Pontefice plaudì alla costituzione del Tribunale di Norimberga per la punizione dei criminali, e dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo approvata dall’Onu nel 1948, ribadì il desiderio della realizzazione di un ordine universale aderente alle eterne verità ed alle leggi divine. Nel 1952, sconfessando l’irenismo a senso unico che già imperversava tra i marxisti, Pio XII dichiarò che nel caso di aggressione gli Stati colpiti avevano il dovere di difendersi e l’Onu di intervenire, specie quando erano in discussione beni come la fede, la giustizia, la libertà. La funzione dell’Onu per risolvere le controversie internazionali fu esaltata dall’apostolo della pace per eccellenza, Papa Giovanni XXIII, il cui appassionato impegno valse ad evitare nel 1961-come ricordato lo scatenamento di una terza guerra mondiale in séguito alla crisi di Cuba.
Con Paolo VI il richiamo alle Nazioni per un serio impegno in favore dell’armonia tra i popoli, fu ancorato alla celebrazione di una “Giornata della pace” da tenersi ogni anno con la partecipazione dei rappresentanti di tutte le fedi. Confermata la dottrina ormai consolidata della giustezza di una guerra volta ad abbattere una tirannia palese e prolungata “che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona”, Papa Montini ammonì che la pace andava difesa non solo dalle tentazioni delle guerre di aggressione, ma anche “contro le insidie di un pacifismo tattico, che narcotizza l’avversario da abbattere, e disarma negli spiriti il senso della giustizia, del dovere, del sacrificio. Pace non è pacifismo – precisò il Pontefice – non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà, l’onore”. Giovanni Paolo II, a lui succeduto dopo il brevissimo pontificato di Papa Luciani, caduto nel 1989 il Muro di Berlino prefigurò un nuovo ordine internazionale ispirato ai valori di un umanesimo cristiano, che doveva sostanziarsi in un lungo periodo di razionalità e di dialogo, di solidarietà e di pacifiche soluzioni delle controversie internazionali. Il sogno fu infranto dall’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, in occasione della quale l’Onu autorizzò gli Usa ad adoperare la forza per liberare il Paese aggredito.
Terminato il conflitto del Golfo, un nuovo tremendo scenario si profilò con lo sfaldamento dei territori dell’ex Jugoslavia ed i conseguenti scontri interetnici che videro l’esasperato nazionalismo di serbi, croati e sloveni e musulmani connotarsi di ferocie inaudite e della scomparsa di ogni segno di umana pietà. Il Pontefice, dal suo letto di dolore al Policlinico Gemelli, il 7 agosto 1992 fece diramare una nota “per fermare questa guerra, per recare soccorsi alle popolazioni e per indagare sulle accuse di atrocità nei campi di concentramento”. Gli Stati europei e le Nazioni Unite – ammonì il Santo Padre – “hanno il dovere ed il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere. Noi cercheremo in tutte le istanze di ottenerlo. È un diritto in favore dell’umanità, e questo lo facciamo per tutti, cristiani e musulmani”. L’11 luglio 1995 innanzi all’imperturbabilità dei caschi blu presenti, i serbi entrarono nella musulmana Srebrenica e massacrarono oltre 7mila civili, per cui la Santa Sede accusò di cinismo e di viltà la comunità internazionale. Davanti all’inerzia dell’Onu, il presidente Clinton e la Nato intervennero efficacemente; ma lo scenario ebbe a ripetersi 4 anni dopo in occasione della guerra del – allorché gli Usa e la Nato posero fine ai massacri di serbi del criminale Milosevic in nome dei diritti naturali violati. Ciò avvenne ancora una volta – purtroppo – al di fuori di un’Onu rivelatasi strutturalmente incapace di decidere.
Il torpore dell’Onu fu scosso dal ricordato attentato alle Torri Gemelle, in seguito al quale sia la Santa Sede che le Nazioni Unite consentirono alla guerra che per legittima difesa gli Usa dichiararono all’Afghanistan dei talebani, che avevano dato compiacente copertura alla rete terroristica di Bin Laden. Il 29 gennaio 2002, ricollegandosi alla tragedia delle due torri, il presidente George W. Bush elaborò la nuova dottrina della “guerra preventiva” contro gli Stati produttori di armi di distruzione di massa. Tale guerra mirava a prevenire i danni che uno Stato avrebbe potuto provocare alla vita, alla salute ed agli interessi vitali di un altro Stato, per cui – – secondo la nuova dottrina – andava considerata una vera e propria guerra di difesa, realizzabile anche senza il consenso dell’Onu. La Santa Sede deplorò la nuova teoria come una minaccia per la pace, in contrasto con l’ordine sociale cristiano. La Civiltà Cattolica, nell’imminenza della guerra in Iraq, confutò la tesi americana circa l’esistenza di arsenali di armi biologiche e sostenne che in ballo vi sarebbe stato un forte interesse economico all’accesso alle immense riserve del petrolio iracheno.
La guerra preventiva è il frutto di un ragionamento molto pericoloso poiché – proseguiva la rivista dei Gesuiti – “la proliferazione di armi atomiche e nucleari, costituisce una minaccia permanente per altri Paesi, di subire aggressioni militari. Se ogni Paese che si sente minacciato, per prevenire la minaccia di essere attaccato, attacca militarmente per primo il Paese che minaccia, si avrebbero guerre senza fine su tutto il pianeta”. Altre voci in campo cattolico si levarono invece in favore della teoria del presidente americano: così George Weigel scrisse che l’uso della forza in Iraq al di fuori di un’autorizzazione dell’Onu non aveva costituito un precedente nel senso dell’uso della legge del più forte, poiché gli Usa e le nazioni alleate si erano mosse per gli scopi di ordine internazionale cui le Nazioni Unite erano indirizzate, ma per il cui conseguimento non riuscivano a prendere risoluzioni che fossero in linea con le proprie finalità. Sulla stessa scia il teologo cattolico Novak, entrando in diretta polemica con il citato articolo della Civiltà Cattolica, sostenne che in base all’originaria dottrina cattolica dei Bellum iustum, una guerra limitata e condotta con grande attenzione per rovesciare il regime in Iraq, sarebbe stata una extrema ratio moralmente obbligatoria, considerate le prove di ferocia già manifestate da Saddam Hussein contro il suo stesso popolo, attraverso l’uso di armi di distruzione di massa. Gli Usa comunque si risolsero ad attaccare l’Iraq ed a porre fine al sanguinano regime che vi regnava, con la contrarietà dell’Onu, del romano pontefice e di alcuni Paesi dell’unione Europea (Francia e Germania in particolare).
Il giorno dopo l’attentato alle Torri gemelle, Papa Giovanni Paolo II parlò di “un giorno buio nella storia dell’umanità, un terribile affronto alla dignità dell’uomo”, poiché “il cuore dell’uomo è un abisso da cui emergono a volte disegni di inaudita ferocia”. Eppure – proseguì – anche se la forza delle tenebre sembrava prevalere, “mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità”. Pochi giorni dopo, recatosi in viaggio apostolico (22 al 27 settembre nel Kazakistan ed in Azerbaijan, a prevalenza mussulmana ma con varie e altre fedi), il Santo Padre rivolse un accorato appello a tutti, cristiani e seguaci di altre religioni, affinché cooperassero per edificare un mondo privo di violenza, che amasse la vita e si sviluppasse nella giustizia e nella solidarietà. “La religione – affermò – non deve mai essere utilizzata come motivo di conflitto. I cristiani e i musulmani preghino l’unico Dio onnipotente affinché possa regnare nel mondo il fondamentale bene della pace. Che le persone di tutti i luoghi operino per una civiltà dell’amore, nella quale non vi sia spazio per l’odio, la discriminazione e la violenza”. Dopo la strage dell’11 settembre, molti parlarono di “scontro di civiltà” (espressione mutuata da un libro di Samuel Huntington), ma la Chiesa il cardinale Paul Poupard, affermò che piuttosto bisognava parlare “d’amnesia delle civiltà,” dato che le tre grandi religioni monoteiste, cristianesimo, ebraismo e islam, condividevano l’anelito alla pace e portavano in sé i semi del dialogo. Papa Wojtyla il 1 gennaio 2002 affermò che “le tre grandi religioni abramitiche, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, sono chiamate a pronunciare il più fermo e deciso rifiuto della violenza. Nessuno, per nessun motivo, può uccidere in nome di Dio”.
Conseguentemente si fece promotore di un incontro tra leader religiosi ad Assisi, pregando per la pace al fianco di un Imam e di un Rabbino. Il 27 ottobre 2011 papa Benedetto XVI indirizzò a tutti gli Stati un messaggio per la pace nel mondo, nel corso del quale invocò “Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono e vita, amore!”, a conclusione della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, nella ricorrenza del venticinquesimo anniversario del primo incontro convocato dal predecessore Giovanni Paolo II. “La libertà è un grande bene – aveva affermato Papa Ratzinger nel discorso pronunciato dinanzi alla Porziuncola nella basilica di Santa Maria degli Angeli – ma il mondo della libertà si è rivelato in gran parte senza orientamento, e da non pochi la libertà viene fraintesa anche come libertà per la violenza. La discordia assume nuovi e spaventosi volti e la lotta per la pace deve stimolare in modo nuovo tutti noi”. Papa Francesco nel corso degli 11 anni dalla sua elezione non si è mai stancato di lanciare accorti appelli per la pace nel mondo, definendo la guerra come male assoluto, offesa all’umanità ed a Dio stesso; la pace come bene assoluto, seme di fraternità universale, condizione necessaria per lo sviluppo della vita umana, cuore delle religioni. La sua preghiera è costantemente rivolta affinché quella che ha definito “la Terza guerra mondiale a pezzi”, lasci il posto alla convivenza pacifica. “Fermare le armi, affidarsi alla politica per risolvere i conflitti, bloccare la produzione ed il commercio di armamenti, pacificare gli animi ed i cuori”, sono le esortazioni ricorrenti del Pontefice argentino. Le risorse siano viceversa indirizzate allo sviluppo: “Salute, alimentazione, educazione, lavoro”.
Aggiornato il 28 febbraio 2024 alle ore 11:33