Le proteste degli agricoltori sono uno degli aspetti più unificanti della nostra vecchia Europa. La cattiva notizia è che contestano l’integrazione. Hanno ragione a contestarla? Gli imprenditori sono come gli operai e i disoccupati quando votano o si iscrivono ad un’associazione di rappresentanza si affidano a qualche cugino. Ma questo cugino almeno è bravo? Vediamo di scoprirlo.
Secondo gli agricoltori la Commissione europea non capisce nulla e opprime le imprese agricole. La parte più rilevante del bilancio europeo è impegnata nell’agricoltura. L’Unione sarà quindi sciocca, ma è munifica, per loro. Il problema è come siano spesi i soldi comunitari. Chi è il beneficiario di tanta munificenza? Senza dubbio, gli operatori agricoli. Infatti tra le loro rivendicazioni c’è una maggiore velocità di pagamento dei contributi. Questa velocità dipende però, nel caso italiano, dalle regioni, non da Bruxelles.
Sul come siano destinate le risorse, dobbiamo ricordare che le istituzioni comunitarie basano la loro attività normativa su un sistema di consultazione molto ampio. Il che significa che gli agricoltori sono costantemente informati circa le iniziative comunitarie, attraverso le loro associazioni che hanno nomi importanti e potenti in Italia, come Coldiretti, Confagricoltura e Cia. Allora dov’è il corto circuito?
Partiamo dal ricordare che i fatti concreti non dipendono dalle leggi, ma dalle relazioni umane e dalla natura.
Nel caso degli agricoltori, la modifica degli aiuti comunitari, può dare benefici immediati ai singoli, ma non risolverà nulla, nella sostanza, considerato che i prezzi non sono decisi da nessuno, se non dal mercato. Il signor mercato, come noto non esiste, ma è il nome che diamo a produttori e consumatori quando si incontrano e si scambiano denaro in cambio di merci. La via d’uscita logica sarebbe rompere i monopoli e aumentare la concorrenza, organizzare nuove filiere di distribuzione, e per questa via aumentare le quote di retribuzione del lavoro delle imprese agricole e al contempo ridurre i prezzi di vendita per il consumatore finale. È questa la richiesta degli agricoltori? No. Gli agricoltori chiedono di ingessare ancora di più il loro settore e, su queste basi, portano i loro trattori a invadere le strade. La loro furia anti-luddista e filo-petrolifera ha oltretutto tra i beneficiari i fondi sovrani arabi e la disperazione russa, crediamo inconsapevolmente.
Ma guardiamo le richieste degli agricoltori. Non vogliono mettere a riposo il 4 per cento delle loro terre, eppure questa misura aumenterà le loro rese. Vogliono deroghe sulle emissioni carboniche, ma quelle porteranno a migliorare la qualità dell’ambiente e delle acque, elementi utili all’agricoltura, con beneficio del prodotto. Oltretutto, su ampia scala, questa scelta dovrebbe far aumentare le piogge, che latitano. Non vogliono il grano ucraino, ma questa è una corbelleria. Il grano ucraino c’è sempre stato. Bloccare il grano ucraino non risolve nulla. Ancora una volta, sembra che la richiesta dipenda dalle fandonie di qualche blog “celodicoio” di marca russa e viene ripetuta senza nemmeno uno straccio di riflessione. Protestano per la scarsa produttività europea e la mancanza di economie di scala. Se infatti è incontestabile che in Ucraina la media delle superfici delle aziende agricole è di duecento ettari, contro i quaranta ettari in Europa, questo di per sé non è un problema. Basta consorziarsi.
L’unica doglianza robusta è sul peso delle burocrazie nazionali sulle attività d’impresa. Gli agricoltori hanno ragione. Ma questo è un problema di tutti. I nostri rappresentanti politici avranno il coraggio di affermare pubblicamente che sono loro i responsabili della crescita dei leviatani nazionali, in combutta con i professionisti del contributo pubblico? Finora la risposta è stata no.
Sappiamo che le proteste finiranno con la promessa di una nuova formulazione dei contributi agricoli.
Ovviamente, anche noi portiamo la nostra solidarietà alle loro lotte. Con il sottile compiacimento per la loro scelta di aver fatto una sciocchezza, quando hanno votato Tizio o Caio perché era un caro cugino. Non tanto bravo, evidentemente.
Aggiornato il 01 febbraio 2024 alle ore 16:17