Il nostro Cesare Beccaria (1738-1794), autore del celeberrimo Dei delitti e delle pene, ricondusse la nascita del potere statale alla rinunzia effettuata contrattualmente dai cittadini a parte dei loro diritti, per ottenerne in cambio il benessere civile. Volendo focalizzare il discorso sul tema della legittima difesa in particolare, è dato osservare che si tratta di un diritto naturale, per cui i singoli ordinamenti succedutisi nel tempo, non lo hanno “creato”, in quanto ad essi preesistente, ma lo hanno “riconosciuto” facendosi funzionalmente carico di regolamentarlo, onde assicurare un’ordinata convivenza civile nella cornice del patto sociale fondativo. Per aversi legittima difesa, l’articolo 50 (2.2) del Codice di Giuseppe Zanardelli sanciva la non punibilità di colui che aveva commesso il fatto “per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale ed ingiusta”. Tuttavia – recitava l’ultimo comma dell’articolo in esame – se il soggetto era andato oltre i limiti previsti nell’evocata necessità, era parimenti esente da pena “se l’eccesso è stato effetto del turbamento d’animo prodotto dal timore della violenza o del pericolo”.
Durante il Regime mussoliniano un grande avvocato e spirito libero, come l’ex deputato socialista (e antifascista) Genuzio Bentini, nel corso di un processo penale a Ravenna nel quale il pm aveva confutato la legittima difesa dell’imputato sostenuta dal Bentini medesimo, rispose: “Legittima difesa! È la parola più alta che si possa dire nella giustizia. È un diritto così grande che annulla il più alto dei diritti: il diritto alla vita. La società se ne priva, chiude gli occhi se il cittadino uccide per non essere ucciso. Nega la vita nell’aggressore, ma per riaffermarla nell’aggredito. Vita contro vita: è più sacra quella del giusto che quella dell’ingiusto. L’ordine giuridico e morale non si turba, ma si consolida”. Venendo all’attuale legislazione penale, in gran parte fondata sul Codice di Alfredo Rocco, con gli aggiornamenti resisi necessari dal divenire socio-politico nell’arco degli oltre 90 anni trascorsi dalla sua redazione, l’articolo 52 del Codice penale testualmente recita al primo comma: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Rispetto al precedente Codice Zanardelli, che contemplava il fatto di respingere una violenza attuale, il Codice Rocco ne anticipò il momento consentito per l’esercizio della difesa, a quello del pericolo dell’offesa.
In atto con la legge 13 febbraio 2006, numero 59, novellata più recentemente da quella 26 aprile 2019 numero 36, si è introdotta la cosiddetta legittima difesa domiciliare, al fine di consentire una maggiore tutela alle vittime dei furti in casa, alla quale è equiparato ogni altro luogo dove si eserciti un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Deve comunque sussistere l’evocata “proporzionalità” se l’aggredito, legittimamente presente in uno dei luoghi indicati, usa un’arma regolarmente detenuta o un altro mezzo idoneo, per difendere la propria o altrui incolumità, i beni propri o altrui, purché non vi sia desistenza e vi sia pericolo d’aggressione. Si configura un eccesso colposo di legittima difesa (articolo 55 del Codice penale), quando si travalicano colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità, ovvero imposti dalla necessità, cioè quando in presenza di una situazione reale che giustifichi in astratto detta difesa, siano stati superati colposamente i limiti di proporzionalità tra offesa e difesa, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Per converso, la punibilità è esclusa – vale a dire si prescinde dalla configurazione di un’astratta proporzionalità – “se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma”, cioè quando il reo aggressore abbia profittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa. La punibilità è parimenti esclusa, trovandosi “in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”.
Quello del “grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto” non rappresenta una condizione “assai stravagante e sinora sconosciuta nell’ordinamento giuridico”, come affermato da un pur assai autorevole giurista, dato che il già ricordato Codice Zanardelli stabiliva che si era parimenti esenti da pena “se l’eccesso è stato effetto del turbamento d’animo (dunque neanche necessariamente grave) prodotto dal timore della violenza o del pericolo”. Attenzione: dal mero timore, e non dalla effettiva situazione di pericolo in atto, richiesta viceversa dall’ attuale normativa. Il quadro storico, filosofico e giuridico, per sommi capi delineato sulla legittima difesa nella cornice del contrattualismo come fondamento ideale e storico dello Stato, va completato con alcuni cenni sulla realtà contemporanea del nostro Paese, in merito alla criticità percepita nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, segnatamente in tema di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Detto tema è strettamente connesso con quello della legittima difesa individuale che, come in un’altalena ideale, sale e scende a seconda del contrappeso fornito dallo Stato a garanzia dei beni fondamentali della vita e della proprietà del cittadino. Mezzo secolo fa (1969) si ebbe un’organizzata “conflittualità permanente” con scioperi a catena, e tafferugli come quello di Battipaglia, in seguito al quale la sinistra più accesa chiese il disarmo delle Forze dell’ordine. Disordini accaddero anche nelle Università, a partire dalla Sapienza di Roma, sino a quelli nella Statale di Milano, nei cui pressi il 19 novembre fu assassinato, nel suo autoblindo, il giovane agente di Pubblica sicurezza, Antonio Annarumma, durante gli scontri con dei facinorosi di area marxista: le Forze dell’ordine erano sì armate, ma con la consegna di non difendersi con i mezzi che avevano in dotazione. Il Capo dello Stato scrisse di suo pugno, accantonando le prudenze istituzionali del segretario generale Nicola Picella, un telegramma che testualmente recitava: “Questo odioso crimine deve ammonire tutti a isolare e mettere in condizione di non nuocere, i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita, e deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del Governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini, la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”.
Nel luglio, il Presidente della Repubblica avvertì una profondissima amarezza sul piano personale, in quanto proprio sul tema del disarmo delle forze di polizia si ebbe l’ennesimo strappo della tela del socialismo italiano, che appena tre anni prima era stata faticosamente ricucita da Giuseppe Saragat e Pietro Nenni con la nascita del Psu (Partito socialista unitario). Saragat, tuttavia, essendo istituzionalmente “ingessato” nel suo ruolo “super partes”, non poté far nulla per soccorrere l’anziano amico e compagno di tante battaglie, che giunto ormai al crepuscolo della vita, aveva compiutamente recepito che il “Sole dell’avvenire” non poteva essere offuscato dalle tenebre della dittatura comunista. Nel 2001, durante il G8 di Genova, morì il giovane dimostrante Carlo Giuliani, mentre brandiva un estintore per scagliarlo contro un blindato dei carabinieri, da dove il milite Mario Placanica – sparando un colpo – lo ferì mortalmente. L’aggressore fu immortalato come un eroe – andandosi ben oltre l’umana pietas che merita sempre la morte – mentre l’aggredito, che aveva agito nella legittima difesa prevista dal Codice penale, venne sottoposto non solo a procedimento giudiziario, ma anche a gogna mediatica, con un paradossale scambio di ruoli tra aggressore (soccombente) ed aggredito (reo di essere sopravvissuto difendendosi). Dieci anni dopo, le “bravate” dei cosiddetti Black Bloc calati a Roma il 15 ottobre 2011 non furono il frutto di una furia estemporanea, ma di un piano studiato nei minimi dettagli e meticolosamente preparato, anche attraverso viaggi di “istruzione” all’estero, per perfezionare la nobile arte della devastazione e del saccheggio, goffamente nobilitata da motivazioni economico-sociali. Si ebbero eclatanti episodi di distruzione vandalica e di proditoria aggressione alle Forze dell’ordine, allorché quei delinquenti organizzati misero a soqquadro la città di Roma, realizzando l’inquietante ripetizione di sequenze già vedute, appartenenti a un passato prossimo e remoto. La novità fu data dalla contestualità con una protesta planetaria, che aveva coinvolto giovani e meno giovani scesi a manifestare in ogni parte del mondo, per problemi universali come la generale crisi economica e la conseguente disoccupazione che aveva messo in crisi anche Paesi di consolidata solidità finanziaria, come gli Usa. Le motivate proteste in questione avevano avuto origine, in genere, da un crollo dell’economia globale con conseguente recessione, dovuta a spregiudicate attività speculative, a colossali frodi fiscali, a scarsi o inefficienti controlli da parte dei Governi sull’opera dei cosiddetti “maghi della finanza”, ma – soprattutto – all’aver vissuto per troppo tempo consumando più di quanto si era in grado di produrre, con una crescita smisurata del debito pubblico degli Stati “spendaccioni” o demagogicamente protesi ad una politica di welfare – quando non di meri sussidi clientelari funzionali alla partitocrazia – senza essere in grado di sostenerne i costi. Una sovraesposizione debitoria – come è noto – è consentita solo nel tempo breve e per obiettivi prioritari ed indilazionabili (per esempio, l’acquisto della prima casa per un privato o l’accensione di un prestito internazionale da parte di uno Stato colpito da calamità naturale).
“Mal comune, mezzo gaudio”, si sarebbe potuto dire all’indomani delle manifestazioni che avevano condotto in piazza nella capitale circa 200mila cittadini (70/80mila secondo le stime della Questura), se la protesta nostrana si fosse mantenuta – come era nelle rette intenzioni degli organizzatori – nell’ambito di una civile manifestazione, similmente ad altre parti del mondo. Purtroppo così non fu, a causa di un gruppo di circa 2mila professionisti formati nella tecnica della guerriglia urbana, che crearono panico, terrore e sconcerto – il che esattamente era ciò che desideravano – tra negozi, banche, chiese, private abitazioni, nonché tra la massa dei dimostranti “regolari”. Il tutto nella spavalda prospettiva di farla franca, essendo i delinquenti appoggiati dalle rispettive famiglie, incapaci di vedere negli atti criminali dei loro rampolli, poco più che delle esuberanti “ragazzate”; delinquenti altresì sostenuti dalla dietrologia giustificazionista da salotti radical-chic, miranti a spiegare, contestualizzare, motivare ed infine assolvere. Questo fu il “condimento aggiuntivo” che dette un sapore speciale alla protesta nostrana, avvelenandone gli ingredienti di base. Questo fu possibile, ancora una volta, non per l’insufficienza numerica dei tutori dell’ordine chiamati a fronteggiare la furia scientemente devastatrice dei delinquenti organizzati, quanto per la mancanza – in seno alle nostre forze di Polizia – di poteri di prevenzione, di deterrenza e di repressione, analoghi a quelli di Forze loro omologhe operanti in altri Paesi liberi, dove l’energia della dissuasione non ha mai messo in discussione la stabilità delle istituzioni democratiche , ma anzi le ha rafforzate.
Un giovane carabiniere, dileggiato ed aggredito da un bandito-studente a tempo perso, se non fosse riuscito a mettersi in salvo dal suo automezzo dato alle fiamme, avrebbe corso il rischio di restare intrappolato come il povero Annarumma e di farne la stessa fine, oppure – ove si fosse difeso – di trovarsi processato da criminale come Placanica. In questi termini, nessun appartenente alle Forze dell’ordine fu più in grado di operare a difesa, prima ancora che della propria incolumità (il che è un diritto naturale, preesistente a ogni codificazione scritta che lo legittimi formalmente), di quella dell’intera collettività. In tempi più recenti, un agente di polizia che il 10 giugno 2018 aveva sparato con l’arma di ordinanza per salvare un collega accoltellato da un giovane ecuadoriano, lo uccise, si ritrovò incriminato per eccesso colposo di legittima difesa! Qualcuno avrebbe dovuto spiegare ai comuni cittadini – ed a maggior ragione ai tutori dell’ordine – a fronte della percezione di una sorta di inesorabili “automatismi” nelle incriminazioni a titolo di “eccesso colposo”, in che cosa consistesse la “fisiologia” della legittima difesa. Procedendo per questa strada, si è progressivamente consolidato un sostanziale depotenziamento delle forze di Polizia, che non sono state formalmente disarmate, ma che di fatto non possono difendere la collettività senza rischiare un’incriminazione. A questa situazione di paralizzante operatività di coloro che sono chiamati a difenderci, si aggiunga l’ulteriore venir meno dell’effetto crimino-deterrente del sistema penale: ciò che serve –lo insegnava Beccaria – non sono nuove e più aspre sanzioni, bensì pene certe nel momento applicativo, senza sconti, amnistie, indulti, offerte premiali e altro, che vanificano l’effetto dissuasivo delle pene medesime, dato non dalla loro gravità in astratto, ma dalla loro inesorabilità nel momento applicativo.
La ragione fondante di un’organizzazione istituzionale è data prioritariamente dal fatto che coloro che ne fanno parte – come già inizialmente accennato – hanno rinunziato alla singola autotutela dei propri diritti fondamentali (come quello alla vita, alla pace, alla proprietà, alla libertà), per realizzarne una più efficace, associandosi stabilmente in una solida e durevole struttura organizzativa, di cui lo Stato moderno rappresenta la forma più evoluta. Detto Stato trae pertanto la sua ragion d’essere, e il limite invalicabile al suo agire, nella protezione dei diritti ricordati, che sono ad esso preesistenti e dei quali è chiamato a garantire il godimento tramite le Forze armate e di Polizia, per la difesa – rispettivamente – da aggressioni esterne e interne. Nel caso che l’invocata tutela venga meno, o non risulti più adeguata per un oggettivo indebolimento delle Forze dell’ordine, due sono le strade giuridicamente percorribili: ridare a dette Forze i poteri operativi originari, senza dover esse incorrere automaticamente in incriminazioni penali per “eccesso di…”; oppure – e questa sembra la via scelta con la recente riforma del Codice penale – rafforzare l’ autotutela del singolo cittadino, sempre più frequentemente esposto a varie forme di criminalità, baldanzosa e fidente nella sostanziale impunità, fino a esigere “risarcimenti del danno” da parte delle vittime che hanno avuto l’ardire di resistere a un tentativo di furto o di rapina. Questo è il quadro di riferimento nel quale va contestualizzata l’attuale riforma della legislazione sulla legittima difesa, che per sommi capi andiamo a riassumere.
La legittima difesa in genere – va ribadito – non è una tutela creata dal legislatore, bensì un atto “ricognitivo” di un diritto naturale preesistente alla nascita di società organizzate (villaggio, Comune, Stato) sin dai tempi antichi: quello alla vita, innanzi tutto, e a seguire – con criteri di proporzionalità – alla tutela dei propri beni. Diritto naturale che è presente anche negli animali a livello di “istinto”, allorché vengano aggrediti. In estrema sintesi, esemplificativa: se una donna di notte in una strada isolata viene minacciata da un malvivente, può difendersi senza dover essere chiamata a rispondere su di una proporzionalità reattiva o meno, che soltanto a mente lucida è dato valutare. In ultimo, dato che in tempi recenti si è assistito al paradosso di vittime che hanno dovuto risarcire il delinquente o i suoi parenti sotto il profilo civilistico, provvidamente il legislatore ha sancito nel novellato testo dell’articolo 2044 del Codice civile che “non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri”. Norma questa utile ad omnem dubium tollendum, ma che forse non era indispensabile, dal momento in cui non può configurarsi un danno da un’azione definita “lecita” in sede penale. L’accertamento della legittima difesa, anche meramente putativa, va compiuto attraverso una ricostruzione dell’atteggiamento dell’aggredito nel concreto. Esso va effettuato – per poter ammettere la scriminante in discorso – con una valutazione ex ante circa le circostanze in cui la vittima si è trovata a dover reagire nell’immediato, e non ex post in base a degli schemi precostituiti circa la proporzionalità e la necessità difensiva, decontestualizzati dalla realtà dell’evento. Nel promulgare la legge in parola il 26 aprile 2019, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella volle non casualmente sottolineare che “la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia”.
La novità – proseguì – è data dal rilievo decisivo assunto dallo allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto, oggettivamente determinato dalla situazione in cui si è venuto a manifestare. Un’anomalia testuale rilevata dal Presidente è che, mentre nella legittima difesa “domiciliare” le spese del giudizio per le persone interessate siano poste a carico dello Stato, analoga previsione non è contemplata per le ipotesi di legittima difesa in luoghi diversi dal domicilio. La pregnante puntualizzazione del Presidente della Repubblica, nel ribadire il ruolo fondamentale delle Forze dell’ordine per tutelare l’incolumità e la sicurezza della collettività, appare vieppiù illuminante per ricordare le condizioni dell’ideale patto sociale che lega i cittadini con lo Stato, essendo i primi tenuti a pagare le tasse, e il secondo a garantirne con le Forze armate la difesa da aggressioni esterne, e con quelle di polizia nelle sue varie articolazioni (carabinieri, polizia di Stato e Guardia di finanza), a salvaguardarne l’incolumità personale e patrimoniale da aggressioni criminali
Il ridare fiducia e poteri alle Forze dell’ordine sarà giovevole per la civiltà della nazione tutta, nella consapevolezza che non può esservi durevole libertà, lasciando impunito il crimine e – peggio ancora – criminalizzando coloro che rischiano la vita senza aspettarsi nemmeno un “grazie”. Ma neppure di finire sotto processo. Solo allora sarà possibile una riflessione non emergenziale sulla perdurante necessità o meno che sia il singolo cittadino a doversi difendere senza per questo essere perseguito; oppure che vengano pienamente restituiti ai tutori dell’ordine quei poteri preventivi, dissuasivi e repressivi della criminalità, senza i quali poteri la stessa parola di “tutori dell’ordine” rischierebbe di apparire un guscio vuoto. Nel diritto romano giustinianeo era testualmente recepito questo principio di diritto naturale, cioè ad esso preesistente, e quindi non creato e conseguentemente sempre valido “vim vi repellere licet (è lecito respingere la violenza con la violenza). Il legislatore italiano, nel momento in cui lo ha stravolto, ha realizzato una legge intrinsecamente iniqua, poiché priva di quei requisiti di razionalità naturale (o di giustizia sostanziale che dir si voglia), che ne avrebbero dovuto costituire il presupposto necessario e ineludibile.
Aggiornato il 16 novembre 2023 alle ore 18:06