Il Diritto penale “creativo”: fuori dal principio di legalità

Il nucleo primario di ogni sistema penale deve rinvenirsi prioritariamente in comportamenti avvertiti come forti disvalori dalla coscienza degli uomini, di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni convinzione religiosa o laica: ci si riferisce a quelli che la Dottrina definisce mala ex se, vale a dire atti intrinsecamente malvagi o iniqui, prima ancora che sia intervenuto il legislatore per punirli come tali, mediante una previsione scritta, determinata e chiara (in claris non fit interpretatio).

Il nucleo più ampio del Diritto penale è costituito – peraltro – con carattere di mutabilità, dalle norme atte a reprimere dei comportamenti lesivi dell’ordine sociale ed economico conseguito da una collettività in un determinato momento storico (per esempio nel recente passato in Italia era vietata l’esportazione di capitali all’estero): ci riferiamo alla gamma assai più ampia dei mala quia prohibita.

Nella cornice imprescindibile della norma scritta, è chiamato ad operare il giudice, la cui indipendenza è oggetto di apposita guarentigia, attraverso l’articolo 101 della Costituzione che testualmente recita: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.

Montesquieu (1689-1755) aveva definito il giudice “la bocca della legge, il che significava che egli dovesse valutare il caso concreto oggetto del giudizio, solo ed esclusivamente nell’ambito della stessa, in quanto frutto del Parlamento che rappresentava nelle democrazie la volontà popolare.

Nell’età contemporanea, la Corte costituzionale (sentenza n. 40 del 1964) ha dettagliato il rapporto che deve sussistere tra il magistrato giudicante e la legge: “Il principio dell’indipendenza del giudice […] esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto. Sarebbe perciò certamente illegittima una legge la quale condizionasse inderogabilmente la pronuncia del giudice a una scelta o anche soltanto ad un accertamento compiuto, pel caso singolo, in veste autoritativa da un organo non giurisdizionale”.

Qualora non vi sia una legge atta a disciplinare un determinato caso concreto, in quanto emerso con carattere di assoluta novità, o perché in precedenza non contemplato dal legislatore, innanzi ad un divenire sociale oggi sempre più rapido, il giudice potrà ricorrere ai principi generali del diritto, per adattarli “sartorialmente” all’inedita fattispecie.

Poiché non è infrequente che il Parlamento appaia lento nell’adeguare la legislazione alle incalzanti mutazioni economico-sociali e del costume, sono la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione che possono intervenire con delle sentenze integrative nei vuoti legislativi, purché non si tratti di materie coperte da riserva di legge, come è nel caso dei diritti di libertà (personale, di domicilio, ecc.).

Vi è peraltro un’area nella quale nessuna giurisdizione può essere chiamata a svolgere una funzione di supplenza innanzi alla lentezza o addirittura all’inerzia del legislatore, ed è quella penale, essendo perennemente valido il principio del nullum crimen, nulla poena sine lege.

Orbene, quando si parla di “concorso esternonon esiste una norma apposita nel Codice penale, ma tale fattispecie è il risultato di una interpretazione giurisprudenziale che coniuga l’articolo 110 del Codice penale sul concorso, con il 416 del Codice penale sull’associazione, il che ha comportato delle oscillazioni applicative, con dei mutevoli orientamenti della Cassazione, che hanno inciso significativamente sul principio della certezza del diritto, quant’altri mai necessario nel campo penale.

Il concetto stesso di concorso esterno – come ha bene osservato il Guardasigilli Carlo Nordio – “è un ossimoro: o si è esterni, e allora non si è concorrenti, o si è concorrenti, e allora non si è esterni”.

Come è noto, a causa di una giurisprudenza oscillante, fumosa ed incidente sulla certezza del diritto, massimamente necessaria in campo penale, dove è in gioco il bene primario della libertà, sono sorti dei vivaci dibattiti su dei reati estremamente generici, come l’abuso di ufficio ed il traffico di influenze, che dietro l’apparenza della garanzia testuale fornita da una legge scritta, si rivelano nella maggior parte dei casi delle scatole vuote, dove può farsi entrare di tutto.

Ma vi è di più: il reato fantasma del “Concorso esterno in associazione di tipo mafioso”, è il frutto della creatività di una giurisprudenza deragliata dai binari del citato principio “nullum crimen, nulla poena sine lege”, affermato in Germania dal fondatore della scienza penalistica moderna: Anselmo Feuerbach (1775-1833).

Ciò sortisce degli effetti paralizzanti per la Pubblica amministrazione, con conseguenti ricadute sull’economia, la politica, la reputazione dei singoli malcapitati che, quando vengono colpiti da “avvisi di garanzia”, sono già mediaticamente condannati ad una gogna che può protrarsi per anni, con conseguenze drammatiche sull’onorabilità, sulla reputazione, sulla carriera, sull’affidabilità, sugli affetti familiari degli sventurati.

Per loro, in sprèto alla presunzione di innocenza costituzionalmente sancita sino ad una condanna definitiva, ne opera una anticipata ed inesorabile: quella di un’opinione pubblica livorosa contro politici, imprenditori, manager pubblici e privati, rei di quella notorietà che è sovente più fonte di invidia che di ammirazione emulativa.

Da quanto per sommi capi esposto, si evince che tutto ciò che a noi appariva naturale e scontato a far data dal secolo XVIII, frutto di una lunga ed articolata elaborazione dell’età illuministica, è stato messo in discussione nell’età contemporanea.

Tuttavia, con la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo del 14 aprile 2015, riguardante il noto caso del dirigente della polizia di Stato, Bruno Contrada, data in Strasburgo, fu ricostruita la sua vicenda processuale sino alla condanna per il reato di “concorso esterno in associazione di tipo mafioso”, come risultato di un’evoluzione della giurisprudenza successiva all’epoca dei fatti ascrittigli. Il ricorrente aveva altresì addotto che il reato associativo attribuitogli, aveva violato i principi di legalità, tassatività e necessaria determinatezza delle fattispecie penali, paventando in concreto i rischi di un’eccessiva dilatazione della discrezionalità giudiziale.

La Corte, dopo un approfondito esame, condannò lo Stato italiano a versare al ricorrente 12.500 euro per risarcimento del danno morale subito, e 2500 euro per le spese giudiziali affrontate innanzi alla Corte medesima dal dottor Contrada.

Avviandoci alla conclusione non possiamo dimenticare che il nostro compianto Maestro del diritto processuale civile all’Università La Sapienza Virgilio Andrioli, già nel lontano 1973 diceva a noi laureandi: “L’Italia è la culla der diritto ed er diritto ce s’è cullato così bene, che s’è addormito e nun se sveja più!.

A far data dagli anni Novanta, la situazione era ulteriormente precipitata, come rilevato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, che nel massimo rispetto della Magistratura di cui egli stesso in gioventù aveva fatto parte, parlando del tema “caldo” della Giustizia, criticò l’eccesso del ricorso alla carcerazione preventiva, strumento di pressione sull’indagato, abusato da qualche magistrato “un po’ rozzo” come vero e proprio mezzo di tortura: “il tintinnare le manette in faccia ad uno che viene interrogato da qualche collaboratore – disse con felicissima espressione onomatopeica – questo è un sistema abietto, perché è di offesa. Anche l’imputato di imputazioni peggiori ha diritto al rispetto”.

Memori dell’evocato diritto al rispetto, non possiamo accettare la reiterazione di arditezze creative mosse da impeti giustizialisti, che della certezza del diritto sono la drammatica deformazione, con ricadute esiziali sulla reputazione, sulla salute, sulla carriera dei malcapitati e dei loro cari, sottoposti a delle gogne mediatiche sulle prime pagine, mentre le dichiarazioni di innocenza che arrivano dopo anni di vite distrutte, al massimo sono riportate in trafiletti all’ultima pagina.

Aggiornato il 21 luglio 2023 alle ore 09:43