1943-2023: a ottant’anni dalla ritrovata libertà

Il 3 ottobre 1935 l’Italia attaccò l’Etiopia, aprendo nuovi sbocchi all’emigrazione e alla produzione interna e raggiungendo, al contempo, il momento più alto del consenso al regime; mentre innanzi alle blande sanzioni che seguirono all’impresa da parte della Società delle Nazioni, la stragrande maggioranza degli italiani aderì all’invito a versare l’oro alla Patria, comprese le fedi nuziali. Nell’ottobre 1936 venne stipulata l’alleanza tra Roma e Berlino, che sarebbe stata ulteriormente rafforzata nel 1939 con il cosiddetto Patto d’acciaio. Il 30 marzo 1938 il Parlamento approvò la legge con cui era fu conferito contemporaneamente a Vittorio Emanuele III e a Benito Mussolini il titolo di “Primo Maresciallo dell’Impero”, suscitando la forte protesta del sovrano, determinato a non promulgarla. Intervenne allora il presidente del Consiglio di Stato, Santi Romano, che con acrobatici sofismi ne sostenne la piena legittimità “per l’ovvia considerazione che tale conferimento non deroga alla disposizione statutaria per cui il re è il capo Supremo dell’Esercito”. Il favore delle masse, già assai declinante dopo la legislazione razziale, venne ulteriormente meno con l’entrata in guerra al fianco della Germania proclamata il 10 giugno 1940.

Nel 1943 Vittorio Emanuele Orlando suggerì al re che, avendo il fascismo preso il potere con un colpo di Stato contro il Parlamento, occorreva procedere a “un colpo di Stato inverso” attraverso l’intervento della Corona, per il ripristino delle violate libertà statutarie. Fu scelta invece la forma “pseudo parlamentare” del voto di sfiducia da parte del Gran Consiglio del Fascismo, che si rivelò un grave errore non solo per i suoi riflessi interni, ma anche per i rapporti internazionali, poiché si determinò il dubbio sulla definitiva rottura col fascismo, dato che il mutamento era avvenuto proprio tramite un suo organo. Pertanto il 25 luglio 1943, dopo una drammatica riunione, il sovrano revocò a Mussolini l’incarico di presidente del Consiglio e lo fece prendere in custodia dai Reali Carabinieri. Al suo posto fu nominato il maresciallo Pietro Badoglio, titolare di un Governo formato da generali, alti burocrati, e tecnici civili. Il periodo di transizione tra l’Italia liberticida e le ritrovate libertà, ha il suo dies a quo proprio nella seduta del Gran Consiglio e il suo dies ad quem nella transizione non traumatica dalla monarchia alla repubblica, avvenuta grazie al senso dello Stato e all’elevata coscienza morale dei protagonisti dello storico passaggio: Umberto II e Alcide De Gasperi. Alla vigilia della partenza del re dalla Capitale, Umberto annunziò al padre che intendeva restare a Roma per salvare l’onore della dinastia; ma ne seguì una vivace discussione anche con Badoglio, dove alla fine prevalse l’ordine del sovrano di partire, cui il principe, da soldato, dovette suo malgrado obbedire.

L’8 settembre successivo il re abbandonò il Quirinale e si crearono il regno del Sud, con la successiva luogotenenza, e la Repubblica di Salò, che non fu un mero Stato fantoccio, come venne criticamente definito, bensì uno Stato optimo iure che –osservò Renzo De Felice – fu “capace di mantenere, sino agli ultimi mesi di vita, una propria efficienza organizzativa, con una sua amministrazione e una sua burocrazia, un apparato militare, una polizia, una struttura politica, una diplomazia”. Dopo il Congresso di Bari del Cln, che Radio Londra aveva definito “il più importante avvenimento della politica nazionale dopo la caduta di Mussolini” il 19 febbraio 1944 Enrico De Nicola ebbe un impegnativo colloquio col re a Ravello – formulando la proposta previamente accettata dai generali anglo-americani e dai rappresentanti delle forze antifasciste, di nominare il Principe di Piemonte Luogotenente generale del regno, che permise, nel rispetto letterale dello Statuto, di traghettare – in modo tendenzialmente indolore – l’Italia postfascista alla democrazia, prima ancora che il Popolo fosse chiamato a pronunziarsi sulla futura forma di governo, attraverso il Referendum istituzionale.

Dopo la liberazione della Città Eterna da parte degli alleati, il 4 giugno 1944, Umberto II siglò la cosiddetta prima Costituzione provvisoria: il Decreto Legge 25 giugno 1944, statuente – tra l’altro – che dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali sarebbero state scelte dal popolo italiano, il quale a tal fine avrebbe eletto a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione dello Stato. Il caos politico-amministrativo che si registrò nell’Italia liberata alla fine del 1945, cessò con il governo De Gasperi che, su esplicita richiesta dei liberali in tal senso, sostituì tutti i Prefetti politici con altrettanti di carriera, per cui l’istituzione prefettizia tornò a essere la spina dorsale dell’Amministrazione dello Stato, non solo nel delicatissimo settore dell’ordine pubblico, ma anche in quello della ricostruzione. Gli altri ministeri si mantennero sostanzialmente identici ai modelli pre-bellici, seppure con variazioni organizzative o nominalistiche.

Al Referendum istituzionale e al voto per l’Assemblea Costituente votarono per la prima volta le donne a livello nazionale. Il presidente del Consiglio De Gasperi, in quello stato di nebulosità inquietante, con il mai sopito rischio di una guerra civile, seppe mantenere il consueto equilibrio, guidando sino al giugno 1953 l’Italia della Ricostruzione. La visione nitida della sovranità popolare quale strumento essenziale per la costruzione di un’Italia autenticamente democratica, fu ben espressa nell’intervento memorabile che Giovanni Cassandro svolse l’11 febbraio 1946 all’Assemblea plenaria della Consulta, sul tema in discussione della legge elettorale e politica, cui partecipò quale rappresentante dei Consultori liberali. Circa la proposta di rendere il voto obbligatorio ricordò che i detrattori avevano parlato di misura antidemocratica e illiberale; ma osservò opportunamente che, dato che la democrazia significava governo di popolo, logico corollario era l’adozione di provvedimenti che spingessero a votare la maggior parte di esso. Alle critiche formulate dalla Sinistra, testualmente replicò: “Voi affermate che le masse hanno una elevata coscienza, che esse devono rinnovare lo Stato e insieme affermate che a esse manca la capacità di votare. Ed è stranissimo che i liberali, i quali in Italia hanno attuato il suffragio universale, si debbano oggi difendere dalle stesse accuse che a essi muovevano i conservatori e reazionari del tempo, i quali dicevano che il popolo italiano non era ancora maturo per il suffragio universale (Vivi applausi). Un consiglio agli amici di Sinistra: abbiate per il popolo la stessa fiducia che abbiamo noi”.

Né andava tralasciato un altro aspetto, che l’oratore con lucidità volle evidenziare, e cioè che una volta costruito il nuovo Stato senza il voto obbligatorio, troppo facilmente i suoi avversari avrebbero potuto asserire la non rispondenza tra il Paese legale, scaturito dalle elezioni per la Costituente, e il Paese reale, dato da chi ne era rimasto fuori. Efficacissime le sue considerazioni finali: “Voi del Governo e noi della Consulta, siamo ormai alla fine del nostro compito: abbiamo esercitato un potere sulla base di titoli nobilissimi, quali erano la resistenza per vent’anni alla tirannide e la lotta di liberazione. Ma non dimentichiamo – e questo varrà soprattutto nelle discussioni che terremo intorno al referendum – che noi abbiamo esercitato un potere di fatto. L’abbiamo esercitato in nome del popolo e al popolo lo dobbiamo restituire. Avremo compiuto il nostro dovere quanto più esplicitamente, più chiaramente faremo parlare il popolo. E allora, signori del Governo, colleghi della Consulta, potremo tutti recitare con serena coscienza il nunc dimitte nos Domine” (Vivi applausi).

All’alba delle ritrovate libertà il principe e fondatore della scuola del diritto pubblico italiano, Orlando, nella seduta del 6 marzo 1946 alla Consulta nazionale, affermò che ai suoi occhi il maggior delitto perpetrato dal fascismo, era stato quello di aver distrutto la vecchia classe politica “quella mirabile classe politica – affermò – che la cosiddetta Italietta “aveva dato a se stessa e attraverso la quale si trasmettevano gli esempi, i modelli, il costume”. Era un nobile Parlamento – proseguì – “e intelligente, laboriosa, onesta era la nostra burocrazia, che non solo aveva il senso dell’adempimento del proprio dovere, ma la fierezza della propria funzione e della propria responsabilità; ed era in essa così gelosa la cura di assicurare la tradizione delle proprie virtù, che sapeva senz’altro individuare ed eliminare da sé ogni elemento infetto o degenere”. Con estrema lucidità lo Statista affermò che ci sarebbero voluti dei decenni per riprodurre gli esempi del passato (ma alla luce della situazione attuale, dobbiamo pensare a una profezia tuttora rimasta tristemente incompiuta).

La tirannide accentratrice del fascismo aveva sconvolto e scosso potentemente tutta la complessa struttura istituzionale in cui era articolato lo Stato, così come – sono parole dello Statista siciliano – “in un terremoto l’edificio pur non crollando, resta con gravi crepe che ne minacciano la solidità”. Dopo il Referendum istituzionale del 2 giugno 1946 Umberto II, il 13 salutò i dipendenti della Real Casa convenuti alla Vetrata e i Corazzieri, schierati al centro del Cortile d’Onore al comando del Tenente Colonnello Riario Sforza, mentre nei pressi dell’uscita erano disposti i Granatieri di Sardegna. Allorché la vettura Reale con lo stendardo sabaudo uscì dal Quirinale, Corazzieri e Granatieri gridarono – per l’ultima volta “Viva il Re!”. Eletto alla Costituente, il 25 giugno 1946 Orlando indirizzò all’Assemblea il suo saluto, auspicando la conciliazione nazionale al di sopra delle divisioni di parte. Il Referendum aveva sancito l’avvento della Repubblica, nuova forma dell’unità d’Italia, per cui occorreva “una radicale trasformazione del dovere civico essenziale, che è di onorare questo simbolo, di servirlo con assoluta fedeltà e lealtà, come rappresentativo della Patria stessa, al di sopra e malgrado qualsiasi altra opinione o sentimento, o ideale che si sia professato o che possa ancora essere professato”.

Si trattava di un dovere morale e non giuridico: “Poiché esso si confonde coi doveri verso la Patria – precisò – importa quella devozione appassionata che arriva sino al sacrificio della vita, ogniqualvolta contro quel simbolo si addensi un pericolo o sovrasti una minaccia”. Ricordò che durante il periodo regio insigni personaggi di fede repubblicana, come Eugenio Chiesa, Ubaldo Comandini, Leonida Bissolati e Filippo Turati, avevano adempiuto al dovere di servire la Patria, anche se retta da una forma di governo in contrasto con i propri ideali, per cui – affermò – “è oggi dovere di onore seguire quest’esempio. Oggi che la situazione rispettiva delle due fedi si è rovesciata”. In occasione della Conferenza di Pace di Parigi, il 10 agosto 1946 De Gasperi esordì con una toccante premessa: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione”.

Sottolineò l’estrema durezza del Trattato che ne era scaturito contro l’Italia, specialmente riguardo alla configurazione delle sue frontiere; ma soprattutto per lo spirito ostile che lo animava, nel non aver considerato a fronte dell’esperienza fascista, tutte le cospirazioni dei Patrioti antifascisti, che avevano portato al colpo di Stato e alla rottura con la Germania. Non era stata considerata la partecipazione di tutte le Forze Armate e dei Partigiani alla lotta per la Liberazione. Vi erano poi delle clausole economiche durissime, per cui nel mentre esprimeva l’ansia, il dolore, l’angosciosa preoccupazione per le conseguenze del Trattato, avvertì “Signori delegati grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla. E’ in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.

A Parigi furono firmati il 10 febbraio 1947 i Trattati di pace scaturiti dalla Conferenza, con De Gasperi per l’Italia; ma la ratifica da parte del nostro Paese avvenne con numerose polemiche da parte – tra gli altri – di Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce, i quali sostennero che non era stato dato alcun riconoscimento al ruolo svolto dall’Italia nella guerra partigiana. Nella seduta del 23 luglio 1947 all’Assemblea costituente, Orlando durante la discussione su detta ratifica, chiese al presidente del Consiglio De Gasperi il rinvio della discussione stessa, che trattava il diritto di sovranità dello Stato, dove non potevano esserci dissensi per ragioni politiche, né oggettive ragioni di urgenza tali da giustificarne la precipitosa determinazione, solo per la mera “comodità” dell’ambasciatore che doveva discuterne. Croce, nell’ambito della medesima la discussione, il 24 luglio 1947 affermò: “Io non pensavo che la sorte mi avrebbe negli ultimi miei anni riserbato un così trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che siamo chiamati a esaminare”. Esso non conteneva solo le richieste del vincitore “ma chiedeva e pretendeva anche un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto sembra, si trovano coi vincitori gli altri popoli”. Si trattava di un atto di cui si sarebbe dovuto rispondere alle generazioni future, che avrebbero potuto “sentire in se stesse la durevole diminuzione che l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

Nel contesto della ripresa economica internazionale, il reinserimento dell’Italia avvenne più celermente del previsto, essendo entrata a far parte del Piano Marshall (15 giugno 1947); mentre ai fini della ripresa medesima furono altresì determinanti le teorie di John Maynard Keynes su dei temporanei disavanzi di bilancio, volti a sostenere la domanda interna e gli investimenti produttivi, onde scongiurare lo spettro della disoccupazione. Quanto all’idea di una futura unità europea, al teatro Eliseo di Roma sotto la presidenza dell’on. Parri il 27 ottobre 1947 parlarono Piero Calamandrei, del Partito di azione, Gaetano Salvemini, socialista, Ignazio Silone, del Psiup, Luigi Einaudi, liberale, cioè voci libere (o “eretiche”) nell’ambito dei rispettivi partiti. Calamandrei esaminò i profili giuridici della Federazione europea, prefigurando uno Stato federale sul modello elvetico e statunitense, e non una mera Confederazione, in ragione più intensa coesione caratteristica del primo: “Il federalista – disse – ama la sua piccola Patria, in quanto componente di una Patria più grande, che domani potrebbe essere l’Europa, che dopodomani potrebbe essere il mondo. Cittadino italiano dentro i confini, ma fuori dai confini cittadino europeo”, affinché un’Europa federale potesse divenire elemento di stabilità e di forza nel Vecchio Continente, con un proprio esercito e organi di giustizia comuni”. Salvemini osservò: “In questo ultimo nuovo secolo l’Umanità ha perduto tutto il progresso morale che aveva guadagnato nei secoli precedenti: in una parola noi ci siamo tutti imbarbariti”, auspicando quindi la realizzazione di un’Europa unita neutrale e indipendente dai due blocchi, partendo dal modello felice della Confederazione elvetica.

Silone affermò: “Dipende dall’unità e dall’indipendenza del Continente europeo – se la rivoluzione della nostra epoca, oltre alle forme già note della tecnocrazia e del collettivismo burocratico, ne conoscerà anche una in cui le necessità del benessere collettivo siano armonizzate con i valori culturali del passato, con i valori tutt’altro che superati o superabili, della Grecia, del Cristianesimo e della rivoluzione liberale. Se non faremo l’Europa – ammonì conclusivamente – la nostra generazione potrà considerarsi fallita”. Einaudi evidenziò la necessità e l’urgenza di conseguire l’unità del Continente europeo, quale condizione di salvezza economica, sottolineando per l’Italia in particolare un surplus di manodopera inattiva, che avrebbe potuto essere utilmente utilizzata in aree dove ve ne era urgente bisogno, come Francia, Belgio, Svizzera e Inghilterra: “Quel che vogliamo noi federalisti – soggiunse – è dunque l’abolizione delle frontiere economiche fra Stato e Stato”, con la conseguente libertà di circolazione transfrontaliera delle persone, di un’unica valuta e di un unico mercato. Contro tale prospettiva si levavano quanti coltivavano e adoravano l’idolo dello Stato sovrano assoluto, che era il nemico numero uno dell’intera umanità, fonte di guerre economiche, di parole vane e di fatti atroci. Concetti questi per lui certamente non nuovi, dato che in una lungimirante prospettiva europea, già in gioventù – (20 agosto 1897) aveva scritto l’articolo Gli Stati Uniti d’Europa sulla Stampa così – tra l’altro – argomentando: “Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del nuovo sistema. Gli Stati restano sovrani per tutte le materie che non sono delegate espressamente alla Federazione europea; ma questa sola dispone delle Forze Armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica e il commercio è pienamente libero. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompariranno del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini, l’idolo immondo dello Stato sovrano”.

Il 22 dicembre 1947 venne firmata la Costituzione della Repubblica italiana nella stanza di un Capo dello Stato attentissimo alle ritualità del cerimoniale, che doveva avere dignità formale adeguata allo spessore contenutistico dello storico evento. Essa era stata approvata a larghissima maggioranza dall’Assemblea costituente (453 voti su 515). Sembra opportuno evidenziare che, a fronte degli elementi innovativi presenti nella nuova Carta rispetto a quella statutaria, non vi fu una frattura radicale rispetto al passato sotto il profilo di quella che il Costantino Mortati definì Costituzione materiale, cioè dell’insieme di quei valori (Famiglia, Fede, Patria) in cui continuò a credere e a consentire la stragrande maggioranza degli italiani. Nel contesto delle ritrovate libertà, furono gettate le fondamenta per l’edificio dell’Europa unita, al cui riguardo scrisse con preveggente intuito Pietro Quaroni: “L’Italia è al bivio. Essa è pronta a fondersi in un’Europa nuova e a essere in questa Europa una forza costruttiva e dinamica. Ma se essa dovesse essere respinta nell’ambito dell’egoismo nazionale dal rifiuto altrui dell’idea di Europa, o da una deformazione completa dell’idea originale dell’Europa, l’Italia potrà essere di nuovo tentata di trovare la soluzione dei suoi problemi nel disordine. Purtroppo la scelta tra queste due vie, non è nemmeno nelle sue mani”. L’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina, ha determinato drammaticamente la presa di coscienza da parte degli Stati membri dell’Unione europea, dell’importanza di un’Europa unita e coesa nei suoi valori identitari: libertà, solidarietà, democrazia, dignità umana. In tale contesto, oggi più che mai, l’economia non è più il motore della politica, bensì l’etica, verso la quale essa economia ha un ruolo doverosamente ancillare.

Aggiornato il 07 giugno 2023 alle ore 13:37